sabato 31 marzo 2007

Never forget: Campegine I 7 fratelli Cervi 1943




28 dicembre CAMPEGINE (Reggio Emilia) Eccidio dei sette fratelli Cervi presso il Tirassegno di Reggio Emilia. A ciascuno di essi, prima dell'esecuzione è chiesto di aderire alla Repubblica Sociale: in tal caso avrebbero salva la vita. Tutti rifiutano sdegnosamente. da www.anfim.it
Gelindo (classe 1901), Antenore (1906), Aldo (1909), Ferdinando (1911), Agostino (1916), Ovidio (1918), Ettore (1921).Tutti nati a Campegine (Reggio Emilia), tutti fucilati il 28 dicembre 1943 nel poligono di tiro di Reggio Emilia, tutti Medaglia d’Argento al Valor Militare alla memoria. I fratelli Cervi (il maggiore aveva 42 anni, il più giovane 22) e il patriota Quarto Camurri, con loro ristretto prima nel carcere dei Servi e poi in quello di San Tomaso, avrebbero forse potuto salvarsi. Dopo la cattura i Cervi (il padre Alcide, già in età avanzata, dopo la sparatoria e la resa, decisa per non coinvolgere le donne e i bambini, era stato separato dai figli) erano stati a lungo interrogati e seviziati, ma i fascisti non ne avevano cavato nulla. Ad un certo punto – si racconta - giunsero a dirgli: "Volete il perdono? Mettetevi nella Guardia Repubblicana". Risposero: "Crederemmo di sporcarci". Nemmeno i quattro dei Cervi che erano ammogliati ed avevano figli, compreso Gelindo che ne aveva un altro in arrivo, cedettero alle lusinghe. Allora li presero e li portarono tutti al poligono di tiro. Non si sa quanto abbia pesato, nella decisione di non cedere, l’influenza che Aldo, il più "politicizzato" dei Cervi, esercitava da anni sui fratelli e sui contadini della zona, ai quali aveva insegnato nuovi sistemi d’irrigazione. Aldo – scrisse Piero Calamandrei – non perdeva occasione per educare se stesso e gli altri. "Quando dopo molti anni di accanita fatica di braccia, la famiglia Cervi poté permettersi il lusso di acquistare un trattore, Aldo andò a prenderlo in consegna a Reggio: e sulla strada che porta a Campegine i vicini lo videro tornare trionfante, al volante della macchina nuova, sulla quale aveva issato, come una bandiera internazionale, un gran mappamondo". Oggi la loro casa di Campegine è stata trasformata in un museo. da www.anpi.it
Nato a Campegine (Reggio Emilia) il 6 maggio 1875, morto nella notte tra il 26 e il 27 marzo 1970 all’ospedale di San Ilario (RE), contadino.
Per gli italiani e gli antifascisti che, nel secondo dopoguerra, l’hanno conosciuto o, semplicemente, hanno saputo di lui, era affettuosamente "Papà Cervi". Eppure è stato una figura leggendaria tra quante hanno illustrato la Resistenza italiana. Di lui e dei suoi sette figli trucidati hanno scritto, tra i tanti, Piero Calamandrei, Renato Nicolai, Luigi Einaudi, Arrigo Benedetti; ma a dirne la tempra sono le sue stesse parole, pronunciate dopo che gli fu consegnata una medaglia d’oro, realizzata dallo scultore Marino Mazzacurati, che da un lato reca l’effigie di Alcide e dall’altro un tronco di quercia tra i cui rami spezzati brillano le sette stelle dell’Orsa: "Mi hanno sempre detto…tu sei una quercia che ha cresciuto sette rami, e quelli sono stati falciati, e la quercia non è morta… la figura è bella e qualche volta piango… ma guardate il seme, perché la quercia morirà, e non sarà buona nemmeno per il fuoco. Se volete capire la mia famiglia, guardate il seme. Il nostro seme è l’ideale nella testa dell’uomo". A quello stesso ideale si richiamava il padre di Alcide, Gelindo, imprigionato nel 1869 per aver partecipato ai moti contadini contro la tassa sul macinato che, solo a Campegine, erano costati sette morti e dodici feriti tra i dimostranti e sessanta arresti. Lo stesso ideale, alla scuola dell’apostolo socialista Camillo Prampolini, Alcide Cervi seguì per tutta la vita. Durante la dittatura, quando con la sua famiglia si limitava a lavorare duramente i campi, subì perquisizioni e persecuzioni, ma non si piegò mai ai fascisti. Così, il 26 luglio del 1943, tutti Cervi erano a Reggio Emilia, alla manifestazione per esigere la scarcerazione dei detenuti politici. Dopo l’8 settembre i Cervi organizzarono la fuga dei prigionieri alleati dal campo di Fossoli, li accolsero nella loro fattoria e con loro, con la famiglia Sarzi, che gestiva una compagnia di teatro viaggiante, e con altri amici organizzarono una formazione partigiana della quale faceva parte pure un sacerdote, don Pasquino Borghi, che verrà catturato e fucilato. La notte del 25 novembre 1943 i fascisti accerchiarono la casa dei Cervi, che si difesero sparando dalle finestre sino a che ebbero munizioni. Costretti ad arrendersi furono tutti incarcerati a Reggio Emilia, dove i sette fratelli furono fucilati, con il patriota Quarto Camurri, la notte del 25 novembre. Alcide, che ignorava la sorte dei figli, rimase in carcere sino al 7 gennaio 1944, quando un bombardamento aereo smantellò l’edificio e gli permise di fuggire. Tornato a casa, la trovò distrutta, apprese che tutti i figli erano stati sterminati, ma non si piegò. Con la moglie, Genoveffa Cocconi, le quattro nuore e dieci nipotini riprese a lavorare per ricostruire la casa e condurre la terra. Il 10 di ottobre i fascisti tornarono e distrussero quel che i Cervi superstiti avevano ricostruito. Genoveffa non resse e un mese dopo morì. Alcide resistette ancora e per altri 14 anni, con quel che gli era rimasto della famiglia, continuò a coltivare il seme della libertà. Oggi la sua casa è museo della Resistenza. da www.anpi.it
Storie della Resistenza I SETTE FRATELLI CERVI
Cos'è il dolore quando tutto intorno è dolore? Quando la guerra spazza via ogni tentativo di ridare alla vita la sua dignità, di riconsegnare agli uomini il loro vero essere tali e non perenni gladiatori votati alla ricerca della morte? Il dolore è una reazione forte, a volte anche una rassegnata difesa che ci portiamo appresso per sopportare, per sopravvivere, per continuare a vivere. E a raccontare. Ad un congresso dell'ANPI una madre abbracciò Alcide Cervi e gli disse che il suo dolore era certamente più grande del proprio: lui aveva perso sette figli, lei "solo" uno. Ma papà Cervi la strinse a se e le disse che non era vero, che era la stessa identica cosa: "Tu ne avevi uno, quello ti hanno preso. Io ne avevo sette e sette me ne hanno presi. Non c'è diversità". Il racconto del vecchio sopravvissuto della famiglia Cervi alla rappresaglia fascista del Novembre del 1943 a Gattatico (Reggio Emilia), è volto alla conservazione della memoria. "Difendo la memoria dei miei figli e dei partigiani. Perciò mi sono deciso a raccontare..." dice. Sono sette ragazzi cresciuti nei campi della pianura padana: Aldo è quello che legge molto, che si interessa di Gorkij e Victor Hugo e si abbona anche a riviste di agricoltura. Studia un poco di agronomia e pensa, così, che forse occorre livellare i campi per evitare la stagnazione dell'acqua e migliorare il raccolto di erba medica. Cosa che puntualmente avviene. C'è tanta povertà in questo mondo contadino, ma c'è tanta fierezza e la consapevolezza di quello che succede nell'Italia di allora. La dittatura fascista imperversa in ogni dove e i fratelli Cervi sono profondamente legati all'idea di libertà che Alcide insegna loro: il padre li educa cristianamente, ma insegna a loro che "... protestava Cristo e protestava Lenin, per questo non bisogna mai avere paura". Così disprezzano la violenza delle squadracce di Mussolini e si danno all'attività clandestina antifascista mentre le Case del Popolo bruciano sotto i loro occhi, i libri che divulgano le idee materialiste vengono gettati alle fiamme e così i ritratti di Marx ed Engels. L'aria della pianura si fa triste, ma la vita scorre e la speranza che la guerra finisca presto è in tutti gli uomini e le donne. Mentre si compiono le efferatezze del regime littorio, Ettore, Ovidio, Agostino, Ferdinando, Aldo, Antenore e Gelindo lavorano attivamente per la Resistenza, nelle fila comuniste. Si scambiano tra loro le informazioni e mantengono contatti con le nascenti formazioni partigiane. Racconta Alcide Cervi che il 25 Luglio 1943 si trovavano nei campi quando giunse la notizia che il Gran Consiglio del fascismo aveva sfiduciato Mussolini e il re lo ha fatto arrestare a Villa Savoia. I colori della terra, le spighe del grano e le fronde degli alberi cambiano colore agli occhi della libertà ritrovata. Sembra la notte della presa della Bastiglia: si canta, si balla e ci si illude per un attimo che la guerra sia veramente finita, che la dittatura a breve sarà messa in soffitta e che il popolo italiano troverà un nuovo percorso di vita, magari democratica. I Cervi e la gente del posto si dirigono il giorno dopo al carcere San Tommaso e chiedono la liberazione degli antifascisti reclusi: escono visi sofferenti, sono ossa che camminano e cadono nelle braccia di quelli che si sentono uomini liberi. Aldo riporta un poco tutti alla realtà e ricorda la frase del Maresciallo Badoglio, nuovo capo del Governo Italiano: "...la guerra continua a fianco dei tedeschi...". Ma lo stesso pragmatico Aldo non riesce ad affidarsi al pessimismo e propone al padre di offrire una pastasciutta a tutto il paese. La farina l'hanno in casa, il formaggio lo prendono alla latteria e lo scambiano con il burro e fanno quintali di pasta insieme ad altre famiglie. Anche i carabinieri regi si mettono a mangiare: i fascisti sono spariti come gli assassini nella torbida notte avvolta da una nebbia storica fatta di massacri e genocidi. Ma è una sparizione momentanea, in attesa che sul tricolore campeggi l'aquila imperiale di Roma...I fratelli Cervi danno ospitalità a numerosi combattenti per la libertà, e la lotta partigiana si intensifica. Ma la liberazione tarda a venire: gli Alleati angloamericani sono fermi sulla linea Gustav e sembra non si muovano di un millimetro. La Repubblica di Salò, fantoccio statale di Hitler, ripristina repentinamente il fascismo decaduto e chiama alle armi tutti i giovani. Chi diserta, chi va sui monti e la Resistenza prende corpo: si formano i GAP (Gruppi di Azione Partigiana) che agiscono nelle città e i Comandi piazza del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale). Nella casa dei Cervi i prigionieri di guerra ospitati sono circa una trentina. Lo stesso Alcide ammette che sono troppi e dice ai figli che l'ordine del CLN è di far sfollare i prigionieri, poiché i rischi di rappresaglie fasciste sono concreti. Ma è sempre Aldo a prendere in mano la situazione: al padre dice che ormai il rischio c'è e che i prigionieri tanto vale che restino nel reggiano a combattere con i partigiani. È in quel frangente di Novembre del '43 che Aldo rivede una sua cara amica, Lucia e le chiede di insegnargli una canzone: "Ché se mi fucilano voglio cantarla prima di morire". La ragazza gli risponde inquieta: "La canzone te la insegno, ma per vivere", ricorda Alcide Cervi. E qui si posano le parole quasi profetiche di Aldo: "Vorrei tanto vivere e tanto amare, ma viene il tempo che a ciascuno verrà chiesto il massimo". Lucia scherza un poco su queste parole. Tenta di sdrammatizzare e insegna ad Aldo la canzone che chiama il proletariato all'unità e non più alla divisione d'un tempo quando nella Comune di Parigi la borghesia schiacciò nel sangue il primo esperimento di governo operaio e socialista. Dalla casa dei Cervi partono gli ultimi prigionieri: restano due russi, un inglese, un sudafricano e un australiano. I fascisti lanciano ai Cervi molti avvertimenti: li minacciano e fanno capire loro che la resa dei conti si avvicina. Quel Novembre è fatto di pioggia a dirotto: è la sera del 25. In casa dormono tutti mentre fuori vengono sparati dei colpi di fucile e il bestiame si sveglia. Una voce fa comprendere a tutti cosa succede: "Cervi, arrendetevi!". Ma i fratelli non solo non si arrendono, ma prendono in mano le armi. La madre dei ragazzi, Genoveffa si è rimpicciolita in un angolo di una stanza, muta e pallida e tenta di calmare a poco a poco i bambini. Aldo ha un mitra e fa fuoco sui fascisti. Un fuoco che dura pochi minuti. Le munizioni finiscono, la rabbia cresce: le camicie nere danno fuoco alle stalle. Papà Cervi vorrebbe scendere e affrontare gli squadristi, ma Aldo lo frena pensando alle donne e ai bambini..."Meglio arrendersi", dice al padre. Racconta Alcide: "Così scendiamo le scale, piano per l'ultima volta. Le donne si aggrappano alle spalle degli uomini, qualcuno piange. Agostino prende in braccio il suo bambino e lo bacia". Con sangue freddo Aldo riunisce tutti nell'aia e ordina ai fratelli di non prendersi nessuna responsabilità. Toccherà a lui e a Gelindo questo compito. I fascisti asseragliati attorno alla cascina sono una cinquantina. Fanno salire sui camion i sette fratelli e il padre. Antenore si raccomanda ai suoi tre figlioli: "Non lasciate mai la mamma sola, e non fate arrabbiare la nonna. Papà torna presto".Una bellissima canzone dei "Gang" ("La pianura dei sette fratelli") ritrae questo momento: "Nuvola, lampo e tuono, non c'è perdono per quella notte / che gli squadristi vennero e via li portarono coi calci e le botte. Avevano uno sguardo / e degli abbracci quello più forte / avevano lo sguardo quello di chi va incontro alla morte...". Il più vecchio dei fratelli ha 42 anni, il più giovane soltanto 22. Quando aprono la porta della loro cella, i fascisti urlano che escano fuori. Alcide esce in testa ma le camicie nere lo ricacciano indietro. "Tu che vuoi, sei vecchio!". "Sono il capofamiglia, e voglio stare insieme ai miei figli". L'esecuzione viene rimandata di un giorno. All'alba fanno uscire i sette giovani con la scusa di condurli a Parma per il processo. Alcide fa appena in tempo a salutarli e rimane solo nella cella. Lo rinchiudono così insieme ad un avvocato antifascista, Manlio Mariani e ad altri "contrari al regime". A queste persone Alcide Cervi racconta come sono andate le cose: racconta anche del rifiuto dei suoi figli di entrare a far parte della Guardia Repubblicana fascista. Si dice certo che se li condurranno in Germania a lavorare supereranno le privazioni e le fatiche. "I mie figli sono contadini forti", dice all'avvocato. "Torneranno". Non sarà purtroppo così: li conducono invece al tiro a segno che c'è nelle vicinanze. Prima dell'esecuzione uno di loro si toglie il maglione. Lo sentono dire che potrà servire a qualcun'altro se non sarà forato dalle pallottole...Poi un velo di ghiaccio cala sulla pianura, sulla casa e su papà Cervi che viene lasciato libero di tornare a casa. I suoi figlioli sono stati freddati dal plotone. Alcide abbraccia quello che resta della grande famiglia e la moglie comprende ciò che è accaduto: "I nostri figli non torneranno più. Sono stati fucilati tutti e sette." dice al marito. Lui, attonito, smarrito, comprende allora che Aldo e i suoi sei fratelli sono stati assassinati dai fascisti. Piange papà Cervi e le sue lacrime segnano uno spartiacque netto: la fine della speranza, la fine di tutto. Tutto, infatti, sembra crollato, distrutto, annichilito e sepolto sotto un cumulo di macerie morali e materiali."Le nuore mi si avvicinarono, e io piansi i figli miei. Poi, dopo il pianto, dissi: Dopo un raccolto ne viene un altro. Andiamo avanti".Un anno dopo la tragedia dei sette fratelli Cervi, la madre Genoveffa, distrutta dal dolore, muore. Alcide rimane ancora più solo e resta lui, memoria ferma e sicura, a raccontare ai nipoti perché i loro padri e i loro zii sono morti. Perché non hanno accettato di piegarsi alla dittatura fascista, perché erano antifascisti e comunisti. Sandro Pertini scriverà che la storia dei fratelli Cervi è "una testimonianza della perennità dei valori della Resistenza, fondamento del nostro consorzio civile".
MARCO SFERINI, 14 novembre 2006 da http://www.lanternerosse.it/antifascismo1.htm
fotografie di Alcide Cervi e dei suoi 7 figli. Il dipinto ' di H.F.Latour

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