sabato 7 aprile 2007

Never forget: Genocidio dei Tutsi

Il genocidio in Rwanda fu uno dei più sanguinosi episodi della storia del XX secolo.
Dal
6 aprile alla metà di luglio del 1994 vennero massacrate sistematicamente (a colpi di armi da fuoco, machete e bastoni chiodati) una quantità di persone stimata tra le 800.000 e le 1.071.000.
Le vittime furono in massima parte di etnia
Tutsi, che costituisce una minoranza rispetto agli Hutu, a cui facevano capo i due gruppi paramilitari principalmente responsabili dell'eccidio, Interahamwe e Impuzamugambi. I massacri non risparmiarono una larga parte di Hutu moderati, soprattutto personaggi politici.
Le divisioni etniche del paese sono state opera principalmente del
dominio coloniale europeo, prima tedesco e poi belga, che iniziò a dividere le persone con l'introduzione della carta d'identità etnica e favorire quelli che consideravano più ricchi e di diversa origine: i Tutsi. In realtà Tutsi e Hutu fanno parte dello stesso ceppo etnico culturale Bantu e parlano la stessa lingua. Il genocidio terminò col rovesciamento del governo Hutu e della presa del potere, nel luglio del 1994, dell'RPF, il Fronte Patriottico Ruandese. Il 6 aprile del 1994 l'aereo presidenziale dell'allora presidente Juvénal Habyarimana, al potere con un governo dittatoriale dal 1973, fu abbattuto da un missile terra-aria. Ancora oggi chi fece partire quel missile è ignoto: le ipotesi più accreditate sono quelle che portano alle frange estremiste del partito presidenziale, le quali non accettavano la ratificazione di un accordo (quello di Arusha, nel 1993) che concedeva al Fronte Patriottico Ruandese (RPF), composto in prevalenza da esiliati Tutsi nemici storici degli Hutu (che costituivano l'85% della popolazione e che dalla rivoluzione del 1959 detenevano completamente il potere) un ruolo politico e militare importante all'interno della società ruandese; un'altra ipotesi è quella che sostiene che fu proprio l'RPF a compiere l'attentato, convinto che il suo ruolo negli eventi sarebbe stato marginale e che i patti non sarebbero stati rispettati; negli ultimi tempi è stata inoltre incriminata la moglie del presidente, che proprio quel giorno, contrariamente alle sue abitudini, decise di prendere un mezzo alternativo all'aereo, forse perché conosceva in anticipo la sorte del marito o forse perché lei stessa ne aveva tessuto le trame.
Il giorno
7 aprile a Kigali e nelle zone controllate dalle forze governative (FAR, Forze Armate Ruandesi), con il pretesto di una vendetta trasversale, iniziano i massacri e l'eliminazione fisica della popolazione tutsi e dell'opposizione democratica da parte della Guardia Presidenziale, dei miliziani dell'ex partito unico (Movimento Rivoluzionario Nazionale per lo sviluppo) e dei giovani hutu. Il segnale dell'inizio delle ostilità fu dato dall'unica radio non sabotata, l'estremista "RTLM" che invitava, per mezzo dello speaker Kantano, a seviziare e ad uccidere gli "scarafaggi" tutsi. Per 100 giorni si susseguirono massacri e barbarie di ogni tipo; vennero massacrate più di un milione di persone in maniera pianificata e capillare. Uno dei massacri più efferati fu compiuto a Gikongoro, l'allora sede dell'istituto tecnico di Murambi: oltre 27.000 persone vennero massacrate senza pietà e la notte dalle fosse comuni il sangue uscì andando ad inumidire il terreno. Per dare un'idea sommaria di quello che avvenne, basti pensare che in un giorno vennero uccise circa ottomila persone, circa 333 in un'ora, ovvero 5 vite al minuto. Il massacro non avvenne per mezzo di bombe o mitragliatrici, ma principalmente con il più rudimentale ma altrettanto efficace machete e con terribili bastoni chiodati, fatti importare per l'occasione dalla Cina. La storia del genocidio ruandese è anche la storia dell'indifferenza del mondo occidentale di fronte ad eventi percepiti come distanti dai propri interessi. Emblematico fu l'atteggiamento dell'ONU che si disinteressò del tutto delle tempestive richieste di intervento inviategli dal maggiore generale canadese Romeo Dallaire, comandante delle forze armate (3.000 uomini) inviate dall'ONU. Si riporta un passo tratto dal fax inviato all'ONU dal maggiore generale in cui si denuncia il rischio dell'imminente genocidio: Dal momento dell'arrivo della MINUAR, (l'informatore) ha ricevuto l'ordine di compilare l'elenco di tutti i tutsi di Kigali. Egli sospetta che sia in vista della loro eliminazione. Dice che, per fare un esempio, le sue truppe in venti minuti potrebbero ammazzare fino a mille tutsi. (...) l'informatore è disposto a fornire l'indicazione di un grande deposito che ospita almeno centotrentacinque armi... Era pronto a condurci sul posto questa notte - se gli avessimo dato le seguenti garanzie: chiede che lui e la sua famiglia siano posti sotto la nostra protezione. Il Dipartimento per le Missioni di Pace con sede a New York si guardò bene dall'inviare la richiesta d'intervento alla Segreteria Generale o al Consiglio di Sicurezza.
Nonostante i diversi rapporti presentati alla Commissione per i Diritti Umani dell'ONU, il Consiglio di Sicurezza, a causa del veto USA, non riconosce il genocidio in Ruanda. Inoltre furono provate le responsabilità di molti paesi occidentali che mandarono i contingenti con l'unico scopo di salvare i propri cittadini. Fra questi spicca il Belgio e la
Francia, che non solo non volle fermare la folle barbarie assassina (negli anni precedenti aveva armato e addestrato le FAR), ma anzi la fiancheggiò mandando contingenti a supportare le truppe hutu in ritirata dopo l'arrivo del FPR (tutsi). Gli USA però non si limitarono a mettere il veto, come si può vedere da questa citazione del reporter Steve Bradshow della BBC: "Quando le Nazioni Unite decisero di mettere insieme una forza d'intervento, gli USA la ritardarono con la scusa dei veicoli blindati - le loro argomentazioni andavano dal colore con cui dipingere i veicoli a chi avrebbe pagato per dipingerli." Da ricordare anche la dissimulata connivenza nei confronti del massacro da parte di alcuni membri della chiesa cattolica, essendo il Ruanda il paese africano più cristianizzato (80% dei credenti), e nonostante Giovanni Paolo II abbia definito apertamente genocidio quello che è avvenuto. Ancora oggi, dopo più di dieci anni dal genocidio, rimangono in libertà numerosi autori delle stragi, alcuni paradossalmente protetti da paesi occidentali, come la Gran Bretagna, con il prestesto dell'assenza di trattati di estradizione con il Ruanda. L'UNAMIR restò in Ruanda fino all'8 marzo 1996, con l'incarico di assistere e proteggere le popolazioni oggetto del massacro. L'ufficio dell'ONU fu capace di lavorare a pieni ranghi solo dopo il termine del genocidio, e questo ritardo costò alle Nazioni Unite una quantità di accuse che le portarono, nel marzo 1996 appunto, a ritirare i propri contingenti. Nel corso del mandato, avevano perso la vita 27 membri dell'UNAMIR – 22 caschi blu, 3 osservatori militari, un membro civile della polizia in collaborazione con l'ONU e un interprete. Gran parte dei mandanti e dei perpetratori della carneficina trovarono rifugio nel confinante Zaire (oggi Repubblica Democratica del Congo). Gli odi razziali, che avevano fomentato la tragedia e che hanno lasciato un'impronta indelebile sul suolo ruandese, passarono così alle nazioni vicine: si suppone infatti che essi abbiano carburato la Prima e la Seconda guerra del Congo (rispettivamente, 1996-97 e 1998-2003), e che siano stati uno dei principali fattori della Guerra civile del Burundi (1993-2005). L'attuale conflitto del Darfur richiama da vicino il ruolo ottenuto dalla comunità internazionale durante il genocidio ruandese, suscitando il timore che le Nazioni Unite non siano effettivamente in grado di prevenire morte, miseria e distruzione in Sudan come altrove in Africa. La vicenda è stata ricostruita dal film Hotel Rwanda (2004) e "Sometimes in April" (2004).wikipedia
dal sito dragor.blog.stampa.it:
Quei preti assassini
Un milione di morti. Sono le vittime del genocidio rwandese nel quale la Chiesa di Roma ha gravi responsabilità, avendo fomentato per anni l'odio razziale fra Hutu e Tutsi benché il papa fosse stato più volte avvertito del pericolo che incombeva sulla regione. Un genocidio del quale fra 4 giorni ricorre il tredicesimo anniversario. Molti preti hanno partecipato attivamente al massacro dei Tutsi convinti di combattere il diavolo, di solito attirando i fedeli nelle chiese perché le squadre della morte, gli Interhamwe, potessero bruciarli vivi, mitragliarli o affettarli con i machete. Credete che il Vaticano si sia dato da fare per collaborare con la giustizia? Credete che abbia denunciato i preti assassini? Nemmeno per sogno. Come nel caso dei preti pedofili, la Chiesa reagisce con un’omertà di tipo mafioso manifestando una totale indifferenza per la giustizia, un’immoralità profonda, un egoismo supremo, un totale disprezzo per le vittime. Nel luglio del 1994, quando le truppe del Front Patriotique Rwandais entrano a Kigali mettendo fine ai massacri, la chiesa cattolica comincia a organizzare una vasta rete per permettere ai suoi membri assassini di sfuggire alla giustizia internazionale. La questione diventerà pubblica solamente nell’aprile del 2001, quando l’Europa stupefatta vede in tutti i telegiornali i volti di due suore rwandesi accusate di partecipazione al genocidio in un tribunale belga. Nell’aprile del 1994 suor Gertrude (Consolata Mukangango) e suor Kisito (Julienne Mukabutera) rispettivamente Madre Superiora e Intendente, hanno consegnato alle milizie Interhamwe, le squadre della morte, da 5000 a 7000 Tutsi che si erano rifugiati nel loro convento di Suvu e incendiato personalmente con bidoni di benzina un hangar contenente 500 rifugiati. Credete che la chiesa le abbia consegnate alla giustizia? Nemmeno per sogno, le ospita in segreto in un convento belga. Le due religiose sono sfuggite alla giustizia grazie a un circuito organizzato dai conventi e dai missionari. Hanno approfittato dei camion dell’operazione militare francese Turquoise nel luglio 1994, lanciata per proteggere gli assassini e coprire le responsabilità della Francia, per rifugiarsi in Zaire dove sono state accolte da religiose spagnole. In seguito sono state imbarcate su un aereo che, dopo una tappa in Francia, le ha condotte in Belgio. E il pubblico scopre che il caso delle due suore non è isolato. Grazie all’aiuto della chiesa cattolica, molti religiosi accusati di genocido se la spassano in Europa invece di trovarsi sul banco degli imputati nel tribunale internazionale di Arusha, in Tanzania, e in quello rwandese di Kigali, dove vengono processati gli assassini. Per esempio Emmanuel Rukundo, che ha denunciato centinaia Tutsi all'esercito durante i massacri, fornendo liste di nomi e aiutando i soldati nelle ricerche, officia la messa nell’idillica parrocchia di Granges-Canal a Ginevra, in Svizzera. E Martin Kabalira, che ha collaborato ai massacri nella città di Butare, officia nella parrocchia di Saint-Béa vicino a Luchon, in Francia. Un altro assassino se la spassa a Firenze, nella parrocchia di San Martino. Athanase Seromba è accusato di avere attirato 2000 Tutsi nella chiesa cattolica di Nyange, in Rwanda, e poi chiamato le squadre della morte perché li schiacciassero con i bulldozer. Per due anni gli va tutto benissimo, ma 1 milione di morti pesa sulla coscienza dell’umanità. Così African Rights, un’organizzazione simile a quelle israeliane che davano la caccia ai criminali nazisti, arriva nel quartiere di Montughi a Firenze, dove si trova la parrocchia San Martino. Scatta foto, prende informazioni e riconosce Athanase Seromba. La notizia è una bomba, però in Italia non esplode perché il Vaticano e il governo cercano di soffocarla. Purtroppo per loro, il quotidiano britannico Sunday Times pubblica un articolo sul prete assassino e il caso fa il giro del mondo. Nel 2001 il procuratore del Tribunale Internazionale, la svizzera Carla del Ponte cerca di arrestare Seromba, ma l’Italia rifiuta la sua cooperazione dicendo che la legge non la permette. Non contento di fare leggi per proteggere i ladri, come sostiene l’opposizione, il governo berlusconiano rifiuta di consegnare un assassino alla giustizia. Sotto la pressione internazionale, il Vaticano capisce che per salvarsi deve mollarlo e negozia la sua consegna alle autorità rwandesi purché venga trattato bene e sistemato in una cella singola. Seromba sarà processato, giudicato colpevole e condannato a 15 anni. Se un giornalista sbaglia, il direttore paga. Se un impiegato sbaglia, l’azienda paga. Se un prete sbaglia, perché il papa non paga? Perché devono pagare soltanto i subordinati e non i vertici, ispiratori del massacro e colpevoli di complicità con gli assassini? Certo, Wojtyla ha chiesto scusa. Ma che valore hanno queste scuse? E’ come se Hitler, dopo avere massacrato 5 milioni di ebrei, dicesse “scusate, mi è scappato, non lo farò più” e il giudice “d’accordo, per questa volta passi, ma se tocchi ancora un ebreo resterai senza caramelle per una settimana”. Eh, no, caro, hai sbagliato e devi pagare. Invece non soltanto Giovanni Paolo II non ha pagato, ma vogliono addirittura proclamarlo santo. Come dire che vogliono blindare la sua memoria, metterlo al di sopra di ogni sospetto e sottrarlo alla giustizia umana. Un insulto alla memoria delle vittime. Come dice Bertrand Russell, la Chiesa è sempre pronta a rinnegare Dio per salvare se stessa.
Dragor
P.S....non hanno alcuna vergogna...ma forse hanno dimenticato la parabola della pagliuzza e della trave...

il dipinto è di Evelyn De Morgan

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