
La sera del 27 maggio del 1904, proveniente dall'ergastolo di Portolongone, venne trasferito al Manicomio Giudiziario dell'Ambrogiana un trentatreenne ergastolano di nome Pietro Acciarito; venne registrato il suo ingresso nel libro matricolare, gli furono assegnati due numeri, uno relativo alla matricola, il numero 1211, e uno relativo a una delle celle della terza sezione. Acciarito aveva commesso il più grave dei reati che si potesse commettere nel periodo monarchico: nel 1897, a soli 26 anni, aveva premeditatamente attentato alla vita del Re Umberto I. Nel momento in cui aveva commesso il fatto, Acciarito era pervaso di rabbia per le tante ingiustizie e violenze subite, per il lavoro che non si trovava, per la condizione di povertà e la miseria in cui la gente era costretta a vivere, per la fame del popolo e il lusso che circondava il Re: attese il passaggio della carrozza e, armato di punteruolo, vi si scagliò sopra, ferendo il sovrano e sfogando tutta la sua ira. Il Re aveva replicato: "Sono gli incerti del mestiere. Andrà peggio quando costoro sostituiranno i coltelli con le armi da fuoco" Pietro venne arrestato: iniziarono così lunghi anni di reclusione che lo distrussero nel corpo e nella mente. Per conoscere realmente la personalità di Acciarito, occorre prima chiedersi come sia stata effettivamente la sua vita fino a quel momento. Era nato in un piccolo paese vicino a Roma, dove l'ignoranza e la miseria erano caratteristiche comuni nella maggior parte dei suoi abitanti; il padre, disoccupato, sentendosi impotente di fronte alla povertà familiare, sfogava nel vino le sue delusioni. La famiglia si trasferì a Roma, dove il padre trovò un lavoro come portiere; anche Pietro lavorava e contemporaneamente frequentava le scuole serali di disegno, riuscendo a ottenere due diplomi di qualificazione tecnica. Durante l'adolescenza, il suo carattere era del tutto normale: non amava la vita chiassosa, era serio e riservato, rispettoso e mai violento. L'effettivo cambiamento di personalità risale al 1895, quando Acciarito si ammalò gravemente: gli fu diagnosticato uno pneumotifo, accompagnato, nei momenti più acuti della malattia, da frequenti deliri; dopo due mesi, Pietro era clinicamente guarito, ma la malattia lo aveva profondamente segnato: il suo carattere era diventato ancor più chiuso, rifiutava il confronto con la gente e stava per lunghissimo tempo in assoluto silenzio. Dopo qualche tempo, sembrò essersi completamente ristabilito: aprì una bottega di fabbro, andò a convivere, con la promessa di un futuro matrimonio, se il lavoro glielo avesse permesso, con la ragazza della quale si era innamorato, il cui nome era Pasqua Venarubbia.
Le sue aspettative furono ben presto deluse: erano gli anni in cui l'Italia fu pervasa dalla miseria e dal malcontento; i dazi sul pane e sulla farina rendevano i prezzi insostenibili; la miseria acuiva la tensione sociale e le sommosse; la rivoluzione industriale in corso riguardava soltanto le regioni settentrionali, mentre il popolo del sud era costretto ad alimentare la crescente emigrazione; il clima di malcontento e di inquietudine generale si esprimeva in scioperi e in saccheggi ai granai municipali. Acciarito, rimasto senza lavoro, non poteva più provvedere alle necessità della sua famiglia; la sua condizione di povertà era la stessa di tante altre persone che, come lui, erano rimaste impotenti di fronte alla miseria, alla fame, ai bambini malati, ai sacrifici non ripagati. Egli era molto sensibile ai problemi sociali e il suo carattere non era violento; ma negli anni aveva maturato una rabbia non era solo nei confronti del Re, ma anche verso tutte le classi agiate, che continuavano a vivere nel lusso nonostante la gente morisse di fame, nonostante gli operai venissero sfruttati per pochi soldi, nonostante i bambini fossero costretti a lavorare a condizioni durissime. Pensava che avrebbe potuto parlare con il re per convincerlo a fare qualcosa per metter fine a tutta questa sofferenza, il sovrano avrebbe certamente capito, lo avrebbe ascoltato e avrebbe usato i suoi poteri per una riforma. Ben presto si rese conto che tutto questo non era altro che un'utopia; la disillusione e il disinteresse mostrato dalle classi al potere verso i problemi sociali furono la vera causa del suo gesto criminoso: l'attentato al Re fu il prodotto di tanti anni di ingiustizie, di rabbia repressa, di frustrazioni e di desideri mai realizzati. Acciarito venne immediatamente arrestato e condotto in questura; durante gli interrogatori venne legalmente malmenato e minacciato; si era pensato che dietro il gesto criminoso compiuto si nascondesse un complotto anarchico organizzato con alcuni complici, ancora da identificare e assicurare alla giustizia; condotto alle carceri di Regina Coeli, fu rinchiuso in una cella di isolamento sotto stretta sorveglianza. Durante il breve processo vennero ascoltati anche i testimoni portati dalla difesa, che descrissero Acciarito come un giovane tranquillo, onesto, buono e caritatevole, tuttavia molto strano e riservato; all'imputato furono chieste le ragioni del suo gesto: la miseria, la fame, l'indifferenza del Re furono le ragioni dello scellerato gesto. Il mediocre avvocato della difesa, appigliandosi a tare ereditarie, fece appello alla clemenza del tribunale, ma la sentenza della Corte d'Assise di Roma fu di condanna all'ergastolo ai sensi dell'art. 117 del codice penale di allora e al pagamento delle spese processuali, nonché di una tassa fissa di 300 mila lire, con la conseguente interdizione perpetua dai pubblici uffici e con la privazione della patria potestà, dell'autorità maritale e della capacità di testare. Acciarito commentò così la sentenza:
Va bene, oggi a me, domani al governo borghese. Viva la rivoluzione sociale! Viva l'anarchia!
Il ricorso in appello fu inutile e la sentenza di condanna fu confermata. Recluso inizialmente nelle carceri di Roma, fu successivamente trasferito prima all'ergastolo di S. Stefano e poi a quello di Portolongone. Durante la sua permanenza a S. Stefano, il Direttore Angelelli, d'accordo con il Cavalier Doria, aveva pensato a un raggiro che avrebbe indotto Acciarito a confessare e a smascherare i suoi presunti complici: gli venne fatta pervenire una finta lettera della donna che amava, di nome Pasqua, nella quale lo si informava della nascita di un figlio, concepito quando Acciarito era ancora libero; con questo raggiro, si sperava che, credendo di esser diventato padre, Acciarito si pentisse e collaborasse con la giustizia, facendo i nomi degli anarchici con i quali si presumeva avesse organizzato l'attentato. Il complotto si rivelò del tutto inefficace: Acciarito aveva agito da solo e non aveva nomi di complici da fare. Allora, il Direttore lo consigliò di compilare una domanda di grazia e di inviarla al sovrano, inserendovi i nomi dei suoi più cari amici, dai quali il Re avrebbe potuto ottenere informazioni circa la sua indole e il suo comportamento prima dell'attentato; questa volta la macchinazione alla sue spalle ebbe effetto: la richiesta di grazia fu letta come confessione e i suoi amici, considerati suoi complici, vennero immediatamente arrestati. Per fortuna, durante il processo fu svelato il complotto e gli indiziati furono prosciolti; inoltre venne aperta un'inchiesta sui responsabili della macchinazione a danno di Acciarito, ma le ingiustizie non erano certo finite; le indagini furono insabbiate: vennero accuratamente celate tutte le prove attestanti i rapporti tra Doria, Canevelli e Angelelli, che proseguirono indisturbati la loro carriera, mentre, paradossalmente, la condizione di Acciarito non feceva altro che peggiorare: durante il processo, soprattutto nel momento in cui venne scoperto il raggiro, Acciarito aveva manifestato un comportamento violento e irrazionale, aveva inveito parole di rabbia, aveva urlato, aveva agito come un folle. Per questo motivo, nel 1904, fu trasferito all'Ambrogiana per un periodo di osservazione: del resto, anche durante i sette anni di prigione già scontati, gli erano state riscontrate manie di persecuzione e disturbi psichici che avevano reso necessario il trasferimento al manicomio criminale; la condizione mentale del soggetto era tale da potersi tradurre in una vera e propria alienazione mentale, caratterizzata da momenti di frustrazione e pentimento alternati da frasi di esaltazione e di "odio politico"; in tale stato di delirio si mischiavano manie di grandezza e di persecuzione. Il periodo di osservazione si convertì in vera e propria reclusione a tempo indeterminato: il condannato, durante la segregazione cellulare, non poteva né leggere, né scrivere, né ricevere notizie dalla famiglia e tanto meno visite, neppure quella del medico in caso di malattia; i guardiani dovevano restare completamente in silenzio, non rispondere mai alle domande se non con cenni della testa; dopo qualche mese di isolamento iniziava ad aver paura persino della propria voce, il suo suono era diventato straniero. Ancora oggi ci si chiede se Acciarito fosse realmente pazzo, se il suo ricovero in manicomio fosse stato veramente giusto e necessario: indubbiamente era affetto da manie di persecuzione, ma il suo comportamento in manicomio fa dubitare della sua malattia mentale, visto che non perse mai la lucidità mentale e la consapevolezza dei fatti accaduti e le reazione violente non erano poi tanto diverse da quelle che ognuno di noi ha qualche volta nella vita; lo dimostra una lettera, reperita nel fascicolo personale, indirizzata al Ministro di Grazia e Giustizia, in cui egli raccontava in modo dettagliato la sua storia, sia personale che giudiziaria. Con il passare del tempo, dopo le lunghe disavventure e le ingiustizie subite, dopo anni di reclusione in ambienti non certo salubri, Acciarito andò incontro ad un progressivo decadimento mentale; in alcune lettere dichiarava persino di essere il figlio segreto della Regina Margherita e del Re Umberto I, oppure si firmava Imperatore d'Italia.
Se ancora incerta risulta la natura e la gravità della
sua pazzia, certo è che Acciarito rimase all'Ambrogiana per 39 anni, fino al giorno della sua morte, in una condizione di completo abbandono e isolamento.
Grazie a http://www.altrodiritto.unifi.it I papaveri sono di Van Gogh
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