
Padre di una figlia, Cristina, affetta da Sindrome di Down, Lino Ventura fu molto attivo per la tutela dei bambini handicappati. Fu non soltanto un grande artista ma un grande uomo, come si suol dire "a tutto tondo", per la sua sensibilità e le profonde doti umane. "Uno di noi" di Filiberto Molossi- Lo capisci subito, basta guardarlo: il volto scolpito nella vita, quello di chi non sta tanto lì a pensare che faccia fare, perché la faccia è una, è quella e se non vi sta bene giratevi dall’altra parte. La faccia senza effetti speciali di uno che a vent’anni non aveva vinto alla lotteria e non si era domandato il perché. Una faccia che ti aspetti di incrociare tra i banchi della Ghiaia, o in strada, tra un caffè bevuto in fretta e un autobus perso. E che invece ritrovi su uno schermo e ti senti a casa, perché sai da dove viene, e cosa ha dietro. Basta dare un’occhiata al nome e tutto, in un attimo, è chiaro:Lino Ventura. Lo senti come suona ?Non ho detto Brad Pitt o Robert Redford: ho detto Ventura. Uno dei nostri, uno di noi. Il ragazzino di borgo Paggeria, l’emigrante, il fattorino, lo sguattero, il lottatore: che Parigi è una favola solo per chi non ci deve sbarcare il lunario. Sotto la torre Eiffel Ventura c’era arrivato bambino, a dieci anni, nel ’29, per raggiungere la madre. Il cinema ancora balbettava: non avrebbe mai potuto immaginare che un giorno avrebbe parlato con la sua voce. Una gioventù da bravo ragazzo, di quelli che lavorano sodo per portare i soldi a casa: pochi grilli per la testa e lo sport, alla domenica, per fare valere in palestra le sue spalle larghe. Una buona carriera, qualche titolo importante, poi qualcuno che picchiava più di lui: ce ne è sempre uno, basta capirlo in tempo. Il ritiro e una vita come tante altre. Il cinema ?Sì, ogni tanto, in galleria. Poi si sa: al destino piace giocare. E’ il ’53, si gira "Grisbì": ci vuole un italiano che parli il francese, uno con la faccia giusta, da duro. Uno che non sparisca se lo metti accanto a Jean Gabin, che non abbassi gli occhi davanti al mito. Qualcuno (Emanuele Cassuto, di Unitalia film) butta lì un nome: Ventura. Chi? Ventura. Un ex lottatore di 34 anni, uno che ancora organizzava degli incontri. Qualunque persona di media cognizione avrebbe sgranato gli occhi o forse si sarebbe messa a ridere: ma dall’altra parte del tavolo c’era Jacques Becker, il regista di "Casco d’oro". Qualcosa di più di uno qualsiasi. Forse per questo Becker disse "proviamo". Come andò lo si può immaginare: anche Gabin rimase impressionato. Ventura no, era scettico: per la serie è tutto un gioco, una vacanza, faccio un film poi basta. Ne girò altri 75. Perché? Perché era Lino Ventura, qualunque cosa facesse: uno di cui ti potevi fidare, uno che non ti deludeva. Un professionista, sempre. Serio, rigoroso, attento: come la sua recitazione, limpida, senza fronzoli, in un certo senso etica. Lontana anni luce dall’enfasi preconfezionata degli istrioni o dalle assurde nevrosi degli attori di scuola. Lui era Ventura: e andava bene così. L’uomo giusto al posto giusto: sbirro o gangster che fosse, commissario disilluso o delinquente malinconico. Esemplare, senza sforzo: come se gli venisse facile, come se fosse qualcosa che in fondo avrebbe potuto fare chiunque. Ma che in realtà lui faceva meglio (molto meglio) degli altri. In America uno come lui lo chiamerebbero "the natural": un talento naturale, uno che ce l’ha nel sangue, anche se non lo sa.La cosa impressionante di Ventura era questa sua sicurezza, la perfetta adesione al personaggio, quel suo recitare come vivere, usando gli stessi gesti, le medesime parole. E forse sta proprio qui il segreto del suo successo (davvero enorme in Francia): nell’avere sempre parlato, grazie alla sua misura, alla sua spontaneità, la lingua della gente. Di quelli che si fanno la barba ogni mattina, magari scoprendo nello specchio una ruga in più. Indossò i loro vestiti e le loro speranze, incarnandone le timide fantasie. Perché Ventura aveva un dono: era credibile. Gangster morale nell’ "Asfalto che scotta", minatore ne "La ragazza in vetrina", soldato in "Un taxi per Toubruk": lo guardavi e ci credevi. Hai detto niente. Dolore vero, gioia sincera: senza fare troppo rumore, senza dovere, per forza, fingersi un fenomeno. Rendeva grande la normalità, semplicemente. Così come riusciva a riportare coi piedi per terra la fantasia, a cogliere l’aspetto quotidiano e realistico nella trama più bizzarra. Non aveva bisogno di controfigura, Ventura, né della rete: anche quando bisognava menare le mani, come nel "Gorilla vi saluta cordialmente", di Borderie. "Vado io": c’era un lavoro da fare, non era tipo da tirarsi indietro. Generoso sul set come nella vita: ma senza farne vanto, senza dire, dopo, "hai visto?". Serenamente anti divo, pragmatico, molto vero, sincero. Un attore di carattere, energico, disinvolto: uno che avrebbe potuto rimanere tutta la vita prigioniero di un cliché e che invece riusciva sempre a sorprenderti. Cambiando rotta (le frequenti incursioni nella commedia: da "La via del rhum", a film come "L’avventura è l’avventura" o "Il rompiballe") o tornando, con coraggio e senza ripetersi, sul "luogo del delitto". Lo vollero i grandi (dopo Becker, Sautet, Lelouch, Melville, Rosi) ma lui si permise - come ci racconta anche "Nella pelle di Ventura", il bel libro (edizioni Battei) che Maurizio Schiaretti ha dedicato all’attore parmigiano (filmografia commentata completa più un’intervista e alcune testimonianze, tra cui un paio, molto belle e commosse, di Lorenzo Bocchi) - anche qualche incredibile no: come quelli a Coppola e a Spielberg (l’avrebbero voluto, rispettivamente, per "Apocalypse Now" e "Incontri ravvicinati del terzo tipo"), giganti della nuova Hollywood. Gli bastava quello che aveva: la Francia lo amava. E ancora lo adora. Noi invece, ce lo siamo un po’ dimenticati: come quelle stazioni dove un giorno il treno decide di non passare più. Perché? Così. Lo sfioriamo appena, quasi avessimo paura di disturbarlo: molto meno generosi di quanto lo fu, con tutti, lui. Ma davvero si può pensare di perdere Ventura? E’ un rischio, per niente calcolato. Certi patrimoni andrebbero tutelati: anche perché non si tratta di una rara pianta del Madagascar o di una danza etnica lituana. Sto parlando di Lino Ventura: uno dei nostri, uno di noi. "Perché non provate Lino Ventura?"
di Maurizio Schiaretti (per Catalogo "Police Film Festival")"Perché non provate Lino Ventura? Non è mica male". Il suggerimento, formulato con falsa nonchalanche, non era di quelli che potevano essere ignorati perché a darlo, a registi e produttori alla ricerca di un "duro" per i loro film in preparazione, era nientemeno che Jean Gabin, un "mostro sacro", uno dei più grandi attori e il più apprezzato divo del cinema francese. Uno che richiamava autentiche folle al botteghino semplicemente ammiccando dai manifesti. L'incontro sul set tra Jean Gabin, interprete affermatissimo di pellicole consegnate alla Storia del cinema (Alba tragica, La grande illusione, Il porto delle nebbie, Rififi, La bella brigata per citarne alcuni), e lo sconosciuto Lino Ventura, ex-lottatore di trentaquato col regista pensando che volessero ingaggiare uno dei suoi lottatori e dopo il provino proprio il grande Jean sussurrò a Becker: "È il tipo che ci vuole", e poi, rivolgendosi al sorpreso e imbarazzato Lino: "Tu non prenderti sul serio. Non pensare a quel che ti capita. Vedrai che farai la tua strada"), una carriera importante e ricca di soddisfazioni ma che forse non gli ha offerto tutte le opportunità che avrebbe meritato. Ammirava molto anche Spencer Tracy e Henry Fonda, ma tra le emozioni più forti citava l'amicizia proprio con Gabin, accanto al quale ha recitato altre tre volte, sempre in ruoli secondari: Razzia sur la chnouf, Maigret tend un piège, Le rouge est mis. E fu proprio Gabin a fargli ottenere una chanche fondamentale, la parte del "Gorilla", personaggio popolarissimo dei romanzi di Antoine Dominique, pubblicati nella collana "Série Noir" (la corrispondente francese dei nostri "gialli"): per trovare il suo volto cinematografico, la produzione aveva organizzato un concorso, scoprendo che erano centinaia gli aspiranti a quel ruolo.Gabin tolse tutti dall'imbarazzo: "Perché non provate Lino Ventura? Non è male". (Lino Ventura era a Broadway il 16 novembre 1976, quando apprese la notizia della morte di Jean Gabin. Con lui era Gérard Oury: "Teneva il capo chino perché non vedessi la sua emozione - ha ricordato il regista -. Non parlava, come non parlavo io perché temevo di spezzare un così pesante silenzio. Avrebbe preso il primo aereo per Parigi? Con voce sorda mi disse improvvisamente: "Io non rientro. Jean è nella mia testa, nel mio cuore. I funerali, tutto quello che vi si dice i volti della gente, non mi vanno. Quando tornerò farò, da solo il mio pellegrinaggio nei luoghi dove abbiamo riso, mangiato, lavorato, Jean e io. Egli resterà sempre qui". Lino si era battuto il petto, un cassone che avrebbe dovuto contenere un cuore destinato a battere fino a cento anni") Le gorille vous salue bien fu uno dei maggiori successi cinematografici del 1957. Lino Ventura - che già aveva frequentato con successo il set di Ascensore per il patibolo, del giovane e raffinato Louis Malle - divenne un divo. O meglio: un attore molto amato dal pubblico che si concedeva ben poco alle lusinghe mondane, preferendo condurre una vita riservatissima in seno alla propria famiglia. E appena gli era possibile tornava a Parma, la città dov'era nato nel 1919 e che aveva lasciato ad appena otto anni, per raggiungere la madre a Parigi. "La verità - diceva - è che io mi sento parmigiano. Io vivo all'estero da molti, molti anni, ma continuo a sentire il richiamo delle radici della terra dove sono nato e cresciuto. A Parma ho trascorso solo l'infanzia ma quelli sono gli anni che lasciano un segno indelebile. Credo che capiti a tutti quelli che sono nella mia condizione. Quando dico che sono italiano esprimo semplicemente una generalità, io sono soprattutto parmigiano. Non perdo occasione per tornare a Parma o per fare un salto a Busseto, dove ho degli amici, magari anche solo per pochi giorni. E' come un bisogno fisiologico, come rispondere ad una chiamata. Quando mi prende la nostalgia torno qui, a casa. Io mi considero un ragazzo della Ghiaia [l'antico e storico mercato popolare di Parma, n.d.r.], la conosco centimetro per centimetro, per me quella passeggiata nella piazza è come una medicina. E' rivitalizzante… forse Parma ha qualcosa di magico, chissà!" Arrivato per caso al cinema, si rivelò attore duttile e grande professionista. Anzi, perfezionista: di ruolo in ruolo - molto lavoro ma anche lunghe pause di silenzi (poteva restare anche due anni senza affacciarsi sul set se non trovava un copione che gli piacesse) - cresceva la sua bravura d'interprete. La maschera di Ventura, ora gangster ora poliziotto, era diventata, di film in film, il volto su misura per un genere in cui all'attore servono in pari dosi l'istinto e la riflessione, la taglia atletica e l'intuito psicologico. "Può darsi che, senza saperlo, io mi sia sempre rimesso in discussione, su certe cose - mi ha confidato nel 1980 -. Forse quel che dico vi sembrerà un po' enfatico, ma non saprei spiegarlo diversamente. A me càpita così, con naturalezza. Non è questione di disciplina d'attore. Si tratta di un perfezionismo che applico non solo al mio mestiere, ma a tutto, sfiorando livelli maniacali. E' un tratto del mio carattere"Doti naturali, certo, ma anche un patrimonio di finezze interpretative continuamente arricchito proprio perché ritenuto perfettibile. E passo dopo passo agli abiti del "noir" - ora gangster, ora poliziotto: a entrambi regalava un po' della sua umanità - aveva avuto l'accortezza di aggiungerne altri, molto diversi, permettendosi anche ruoli di commediante, visitati con esiti brillanti, grazie alla sua franca comunicativa. Era, come si definiva lui stesso, "un attore al servizio del film". E così è stato camionista in "100.000 dollars au soleil", marinaio in "Le bateau d'Emile", medico in "Les lions sont lachés", soldato in rotta in "Un taxi pour Tobrouk", contemporaneo di Amedeo Modigliani in "Montparnasse 19", resistente in "Marie Octobre", sommozzatore negli "Aventuriers", prefetto in "Cento giorni a Palermo". A proposito di Palermo c'è un episodio curioso che può essere ricordato. La sera della sua morte - giovedì 22 ottobre 1987, quello che "avrebbe potuto essere un giorno come gli altri" ha scritto la moglie Odette nel documentato e commovente ritratto "Lino", pubblicato da Laffont nel 1992 e inspiegabilmente mai tradotto in italiano - l'agenzia "France Presse", l'equivalente francese della nostra Ansa, aveva scritto nei primi dispacci che l'attore era nato nel 1919 a Palermo, motivando il clamoroso errore col fatto che era tornato "nella sua città natale" per portare sullo schermo il generale Dalla Chiesa. E l'uomo - ha scritto Baldassarre Molossi, direttore della "Gazzetta di Parma" ricordando Ventura il giorno dopo la scomparsa - "era - se possibile - ancor meglio dell'attore. Quando il Circolo Pro Parma lo insignì del prestigioso titolo di "Personaggio dell'anno 1982", non lo premiò perché era un grande attore, una celebrità europea e mondiale. No. Venne premiato per un motivo molto più nobile e alto: per la sua attività a favore degli handicappati. Lino Ventura non ha mai voluto che venisse oltrepassato il muro della sua vita privata. Per evitare qualsiasi sospetto di sfruttamento di una certa situazione familiare, si era sempre rifiutato di parlare in pubblico della figlia subnormale che era all'origine della sua crociata in favore dei bambini handicappati con l'associazione da lui fondata col nome di "Perce-neige" (in italiano "Bucaneve"): un nome dolce e poetico per una grande causa e per un grosso problema sociale, perfettamente compreso nei Paesi anglosassoni ma non ancora dai popoli latini. Il giorno della premiazione toccò a chi scrive queste note l'onore e l'onere di presentare Lino Ventura al pubblico. Nella sua biografia c'era un episodio che mi commuoveva, come ancora mi commuove, fino alle lacrime. E' quello della mamma che gli scrisse: "Grazie a voi posso ormai uscire con il mio bambino senza provare vergogna". Ricordo che nel leggere queste righe, la voce mi si incrinò fin quasi a spezzarsi. Ma il pubblico capì il mio turbamento e mi consolò di quel cedimento del cuore con un applauso liberatorio. […] Lino Ventura era un uomo vero, un uomo giusto, un uomo degno di questo nome. Credo che nell'Aldilà gli farà piacere sapere che i suoi amici e concittadini di Parma lo ricordano con la memoria a questi versi di Zukovsky, un poeta minore russo. Essi dicono: "Dei cari compagni di viaggio, che con la loro presenza arricchirono la nostra vita, non dirò con dolore: "Non ci sono più", ma con gratitudine: ''Ci furono"".http://www.newcom.pr.it/segno/cinema.htm Film del cuore: I miserabili Lino/Gastone? entrambi mi sono piaciuti.-Guardato a vista Lino/Morgan la visione americana del fatto-Dai sbirro-Lo schiaffo-Il rompiballe Lino/Walter un modo diverso ma ugualmente valido-Una donna e una canaglia Lino e Francoise...scintille-L'avventura è l'avventura-L'uomo che non seppe tacere-Ultimo domicilio conosciuto-L'armata degli eroi-Tutte le ore feriscono, l'ultima uccide-Sotto il tallone c'è anche Charles Aznavour, altro a me molto caro-In famiglia si spara con il grande Bernard-Ascensore per il patibolo-Montparnasse con le splendide Lilli e Anouk-Il gorilla vi saluta cordialmente-Partita a tre con la splendida Jeanne.....ma tutti dovrebbero essere visti con cura. Non ho mai dimenticato Lino, è un uomo di cui avrei potuto innamorarmi senza riserve, uno che mi avrebbe protetto. Sempre. (Place de la Trinitè è di V.G.Gilbert)
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