giovedì 6 dicembre 2007

Il lager di Bolzano

di FILIPPO AZIMONTI
SULLA massicciata della ferrovia che da Bolzano porta al Brennero, il primo gennaio 1945 qualcuno raccoglie un biglietto insanguinato. Si legge: "Cara Lina, se riceverai quest'ultima, vorrà dire che sono già partito per la Germania (...). Arrivederci piccoli miei e pregate per il vostro papà che vi ricorda sempre". Il biglietto è firmato Tullio De Gasperi, gappista, arrestato il 19 dicembre 1944, deportato, morto a Mauthausen. A raccoglierlo saranno forse stati gli amici dei dimenticati resistenti sudtirolesi: Michael Gamper, canonico, Hans Egarter, leader dell'Andreas Hofer Bund, Franz Thaler, deportato a Dachau, Josef Mayr - Nusser, presidente dell'Azione cattolica, "Ludi" Rotschiller, partigiano, disertore della Lutwaffe, Erich Ammon, fra i fondatori della Svp. Loro, sud bavaresi, tedeschi, anti-italiani avevano scelto la Resistenza. Una storia inedita che colloca nel lager di Bolzano un nucleo di resistenti determinati e organizzati, unico caso nella tragica storia dei campi nazisti. Un romanzo potrebbe raccontare la sfida a distanza tra Lelio Basso (alias Luigi Bianchi, nome di battaglia "Luigi") responsabile per il Cln Alta Italia delle operazioni in Alto Adige e "Mishia" Seifert, il boia di Bolzano, condannato all'ergastolo dal tribunale militare di Padova e in attesa di estradizione dal Canada. Perché in quel campo che era una porta aperta verso lo sterminio dei lager nazisti, la Resistenza aveva organizzato la sua rete. Affidandosi a comunisti, azionisti, cattolici, senza partito, militari, industriali. E, soprattutto, donne. Un caso unico nell'Europa dei massacri. E non certo per le distrazioni dei guardiani pronti ad arruolare professionisti temibili come la "Tigre". Hildegard Iaechert, kapò a 22 anni, reduce da Auschwitz e Mauthausen. Una rete segreta che ha garantito 68 evasioni, ma che non ha potuto evitare 23 fucilazioni e i 3.500 morti fra i 10mila transitati nel Durchgangslager finiti nei campi di sterminio. E pagato con la morte di Erminio Ferrari, Girolamo Meneghini, Adolfo Beretta, Walter Masetti, Romeo Trevisan, Decio Fratini, scoperti e uccisi. Fra i resistenti c'era perfino Franca Turra, sposata a un fascistissimo ufficiale, irriducibile nella prigionia inglese anche dopo l'8 settembre. Ma lei, vedendo i convogli dei soldati italiani prigionieri diretti in Germania, aveva cominciato a rifornirli d'acqua e cibo e a raccogliere, sulla massicciata, i loro messaggi. Solo per questo diventò "Anita" per i resistenti di Bolzano. E poi c'era monsignor Girolomo Bortignon: lui cercava di assistere i suoi parrocchiani rastrellati nel Bellunese, portava le loro lettere incollate sulla schiena per farle uscire dal campo: fin quando una guardia gli dette una pacca sulla spalla, perché era simpatico, scoprì le lettere e lo spedì a Mauthausen. Non ritornò. Anche lui faceva parte di quella rete cui partecipava anche il cardinale Ildefonso Schuster (ma l'Arcivescovado di Milano non ha concesso alcun documento, trincerandosi dietro una privacy che pure scade tra tre mesi). Sono queste le storie che raccontano Dario Venegoni e Leonardo Visco Gilardi, figli e, soprattutto, eredi della memoria dei deportati di un lager italiano "dimenticato". Perché sfruttando le condizioni della "smobilitazione" fu dato ai tedeschi tutto il tempo per distruggere ogni documento ufficiale consegnando alle sole vittime il diritto alla testimonianza. Lo fanno con una mostra che si è inaugurata ieri a Bolzano lungo i muri di via Resia, unica testimonianza rimasta di quel lager dal quale sono passati tra i tanti Piero Caleffi, Ludovico Belgioso, Odoardo Focherini, Gian Luigi Banfi, Laura Conti, Mike Bongiorno, Mario Arata, Roberto Lepetit, Emilio Sacerdote... La storia di un'organizzazione segreta ma anche di una grande solidarietà umana: tanti sono i biglietti come questo scritto da chi stava partendo per Mauthausen: "Io sottoscritto Bolognini Renato fu Luigi, matricola 3876 Bl. H. autorizza la signora Buffalini Ada, matr. 3795, a ritirare corrispondenza, valori e pacchi (viveri e indumenti) che arriveranno al campo ad ogni mese. Bolzano 7 ottobre 1944". Renato sapeva che lo aspettava la morte e provava a dare la vita a qualcuno. Repubblica (6 dicembre 2007) Fiori di Celine.
Anche mio suocero è stato in quel campo, aveva 16 anni e lo avevavo sorpreso a scrivere sui muri invettive al fascismo. E' sopravvissuto.

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