venerdì 29 febbraio 2008

L'Italia perduta in fondo al pozzo

Diaz OlanoDalla speranza di Vermicino all'orrore di Gravina
ANTONIO SCURATI
GRAVINA Di nuovo l’Italia trattiene il respiro per dei bambini caduti in un pozzo. Questa volta, però, non si tratta di un pozzo artesiano scavato in una contrada anonima fuori Roma, impigliata tra un cantiere edile della nuova edilizia popolare e un sentore svanito di campagna. Questa volta si tratta di una cisterna per la raccolta di acque piovane, dimenticata nel ventre di un antico edificio in rovina, anch’esso dimenticato nel ventre di un antico borgo decrepito. Soprattutto, questa volta l’Italia non trattiene il fiato per la vita di bambini in pericolo ma per la loro morte. Non è un’apnea di speranza ma d'orrore. E questo, forse, a voler divinare dai visceri rovesciati della cronaca nera un oroscopo per il nostro sciagurato Paese, ci profetizza il differente destino dell’Italia di oggi e di allora. L’orribile dramma dei due fratellini di Gravina di Puglia, caduti, a quanto pare, ancora vivi, in una cisterna a venticinque metri sotto terra, e lì morti di stenti o per dissanguamento senza ricevere soccorso, questo dramma dello spaventoso recesso e dell’agghiacciante solitudine, richiama inesorabilmente un altro dramma. Il dramma di un bambino che spirò, dopo una lunga agonia, a sessanta metri di profondità in una campagna romana nonostante in superficie ci fosse l'intera popolazione d’Italia a trepidare per lui in un vano tentativo di portargli soccorso. Lo ricordiamo tutti Alfredino. Aveva 6 anni quando in un pomeriggio afoso del giugno del 1981 venne inghiottito da un budello scavato nell'argilla e nel tufo della terra accanto alla casa in costruzione dei suoi nonni. Lo ricordiamo tutti perché sulla sua straziante agonia si accese, per la prima volta nella storia del nostro sciagurato Paese, l'occhio della televisione. Fu quell'occhio, al tempo stesso pietoso e impietoso, complice e supplice, a trasformare un tragico incidente in una tragedia collettiva, con l'Italia intera a fare da coro, sgomento e dolente, al destino di uno di noi. Ventuno milioni di spettatori. Fu la prima lunghissima diretta della storia della Rai: diciotto ore ininterrotte. Mai, prima di allora, la televisione aveva avuto un pubblico così vasto: durante il pomeriggio, la serata e per buona parte della notte furono ventuno milioni gli italiani, con punte di trenta, che assistettero agli inutili tentativi di salvare Alfredino, che udirono le invocazioni della madre e quelle ancora più strazianti del figlio alla madre. Nemmeno per l'epica semifinale tra Italia e Germania nel giugno del '70 tante persone erano rimaste ipnotizzate dal televisore tanto a lungo, nemmeno per il momento culminante dell'epica conquista dello spazio la notte del 21 luglio 1969, la notte dello sbarco sulla Luna. Durante quelle lunghissime diciotto ore, l'Italia scoprì che il racconto televisivo si prestava certo al genere epico, alla celebrazione delle grandi imprese dell'umanità, ma si prestava altrettanto bene al genere tragico, alle cerimonie funebri. Il Paese mediatico scoprì che valeva per il mondo della tv l'inverso di ciò che Marcel Proust aveva scoperto sul proprio mondo letterario: in tv esiste una sola cosa che fa più rumore del piacere ed è il dolore. Erano i giorni della loggia P2, del processo Calvi, gli anni dell'edificazione di Milano 3 e della nascita delle prime televisioni commerciali. Era l'alba di una nuova Italia, finalmente, improvvisamente entrata nella tarda modernità senza esser mai passata attraverso la prima modernità, e in quei giorni il Bel Paese scopriva la potente, ambigua malia dello spettacolo della sofferenza mediatica, del dolore reale per chi lo patisce e virtuale per chi vi assiste, si scopriva incantato dalla morte in diretta. La Nazione mediatica. Fu una scoperta folgorante che gli italiani non avrebbero più dimenticato. Risuonava in essa un'antica eco della più nobile memoria culturale nazionale, quella del canto trentesimoterzo della Commedia, nel quale Dante, per bocca dello sventurato conte Ugolino, pretende dal proprio pubblico il pianto per il pianto dei bambini, proclama l'obbligo morale alla commozione nazionale dinanzi a creature innocenti costrette a morire di stenti in una torre buia, tanto simile alle profondità di un pozzo (Ben se' crudel, se tu già non ti duoli/pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava;/e se non piangi, di che pianger suoli?). E fu, perciò, quello provato dalla Nazione mediatica nei confronti di Alfredino, un autentico afflato di compassione corale. Lo ha colto magnificamente Giuseppe Genna quando apre Dies Irae (Rizzoli, 2006), il suo romanzo sugli Anni '80, rievocando la tragedia di Vermicino con pagine di canora prosa poetica che ricalcano il celebre coro del Nabucco verdiano. E' pur vero, come scrisse Leonardo Sciascia, che nella tragica notte di Vermicino l'Italia fu colta da «un senso di angosciosa impotenza, di disperazione» per un'umanità che aveva conquistato la Luna e si ritrovava incapace di salvare un bambino caduto in un pozzo. Ma è anche vero che, prima di disperare, il cuore degli italiani aveva battuto all'unisono nella speranza di poter tenere in vita il piccolo Alfredino. Ora, invece, a distanza di quasi trent'anni, ci scopriamo ancora incantati dalla morte ma sulla superficie di quest'altro pozzo si racconta una storia di incuria, di degrado urbano, di ricerche sbagliate, di soccorsi omessi. Soprattutto, una storia di nessuna speranza. Spiace dirlo, ma il Paese mediatico sembra davvero essersi immalinconito. Non ci rimane che sperare nel cuore del Paese reale. Fonte: http://www.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/cronache/200802articoli/30607girata.asp

Nessun commento: