venerdì 30 maggio 2008

Rachida, storia di un'ex favorita

Edward RunciLa gelosia di Carlà, il fratello spacciatore, malelingue a Palazzo. E Sarkò l’ha scaricata
DOMENICO QUIRICO
PARIGI-La legavano al Presidente vigorose sanguigne affinità. Chi aveva dato, dava e poteva ancora dare così immortale esempio della concezione sarkosista del farsi da sè, del traboccante proliferare del successo? Ma lei, Rachida: ex monella di banlieue, sveglia di mente e saporita di corpo, la cocca di tipo felino del Palazzo, grappolo di virtù dell’epoca «bling bling» da esibire nei viaggi all’estero e allo stadio, perfetta nei ricevimenti ma anche nei momenti più infruscati e difficili come prova che il presidente è un infatuato creatore di talenti. E’ passato soltanto un anno ed ecco spuntare la gramigna. L’evo tutto stupore e favola del ministro della Giustizia è già finito. Colpa della capricciosa censura di Carla, dicono alcuni, certo non adescata dall’affettuosa amicizia, in nome dello shopping, tra la giurista salottiera e la prima moglie presidenziale. Sta di fatto che solo pochi mesi fa la Dati faceva filtrare alla stampa la notizia che si sentiva pronta a raccogliere l’eredità del primo ministro Fillon. Ora si accumulano le sconfitte e i disappunti, soprattutto attorno al ministro guardasigilli più glamour della storia di Francia comincia ad allargarsi un inquietante vuoto. In questo Paese così giulivo ma con nomenklature dai modi così bolscevichi, il segno della disgrazia è il progressivo rarefarsi degli amici e dei clienti, l’accanimento spropositato con cui gli avversari menano coltellate e fendenti in tutta impunità. Perfino il cantante idolo degli adolescenti, l’incallito Seyfu, strimpella un brano ridanciano in cui riepiloga la carriera penitenziaria del fratello di lei, in carcere per spaccio. Pare che a dare il là sia stata una frase di Edouard Balladur, ex primo ministro e mentore politico del Presidente: «Quella non vale niente». Dopo questa litote così annichilatrice, ecco il moltiplicarsi dei segni della disgrazia. Ai deputati dell’Ump, che viaggiano a comando secondo gli umori trasmessi dall’Eliseo, sono venuti subito i fumi, e le loro antipatie, quando sono sintonizzate chiaramente su quelle presidenziali, non hanno sfumature. Lunedì l’hanno quasi cacciata dall’Assemblea nazionale, dopo averla sbeffeggiata approvando un emendamento annichilatore di una legge sulla parità tra uomo e donna. Persino il presidente dell’Assemblea, Bernard Accoyer, invece di correre in aiuto l’ha malmenata, zittendola, invitandola a sedersi e a lasciare che il dibattito continuasse: «Eh no, madame la ministre, così non si fa. Tutti sanno che cosa c’è scritto nel testo, non è che bisogna ridare dieci volte le stesse spiegazioni». Circolano molti aneddoti, e molto cattivi. La disgrazia risalirebbe a uno sciagurato pomeriggio in cui un amico comune, incrociandola nella boutique di Dior con un gradevole basto di borse e pacchi dall’evidenza assai costosa, avvertì maliziosamente l’inquilino dell’Eliseo. Ancora nella fase ideologica del Rolex massiccio, Sarkozy avrebbe potuto far finta di nulla. Purtroppo notò con ira che, mentre la ex piccola fiammiferaia di banlieue era impegnata a rinnovare così prepotentemente il guardaroba, la Giustizia francese, avvocati magistrati e funzionari, furibonda ciabattava in strada per contestarla. Seconda catastrofe: la sera delle sgradevoli elezioni comunali, la signora ministro apprezzata per il suo focoso cipiglio è apparsa in televisione cartilaginosa e replicante con argomentazioni sgangherate alle bordate dei socialisti trionfanti. Inaffidabile! Così è stata esclusa dalla lista dei cosiddetti «sette samurai», ovvero coloro che discutono i dossier più delicati, là dove sta acquattata una nuova pasionaria, stavolta bionda, di nome Nadine Morano. Intanto il pigia pigia dei pettegolezzi aggiungeva nuovi motivi di sconforto. A Sarkozy hanno fatto notare, per esempio, che non sa resistere all’allettamento di pranzare con François Pinault, miliardario e mecenate. Niente di male se non fosse che Pinault è rimasto fedelissimo a Jacques Chirac, collegamento che l’Eliseo considera equivalente all’alto tradimento. E poi c’è il bisbiglio dei vestiti. La Dati ama Dior quasi più del Verbo presidenziale, la sua prima visita nell’atelier è stata per lei la sorpresa della grotta di Montecristo. Non si è più riavuta, ne occupa prepotentemente i sogni e le fantasie. La quattrinosa Maison di rue Montaigne, dapprima lusingata poi un po’ a disagio, l’ha vista trasformarsi in pochi mesi nella testimone più affezionata e perentoria. Riferiscono i detrattori: chiederle di fermarsi alla cassa sembrava allora scortese, un prestito risultava utile a entrambi. Cosa criticate, pettegoli? La seconda carica della Repubblica avrà ben il diritto, anzi il dovere, di tenere il rango? Fiutando i tempi nuovi, la Maison ora avrebbe chiesto indietro lo smisurato guardaroba, oppure un sollecito pagamento del conto. Pare che la Dati fosse sul punto di inserire il conticino sotto la voce «spese di rappresentanza del Ministero», sventrando bilanci già in angusti. Il controllore della Corte dei conti avrebbe fatto arrivare un secco richiamo alle regole della contabilità pubblica. Ciao ciao Dior, si torna in banlieue.

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