lunedì 26 gennaio 2009

Per non dimenticare

Lucy/De LaszloL'inferno e il ritorno alla vita: i racconti dei sopravvissuti
di Maria Serena Palieri
Si viveva in una specie di incomunicabilità: nessuno poteva raccontare, nessuno voleva sapere. Con le famiglie soprattutto... i miei cognati non mi hanno mai chiesto. Anzi, mi viene da ridere a pensare che mia cognata, se io dicevo “Di fame ne abbiamo patita molta”, lei ribatteva: “Ma non credere che anche noi qua non abbiamo patito fame”. Adesso, invecchiando e ripensando a quell’epoca, ne sono sempre più convinta: il linguaggio non offriva parole sufficienti. Cioè se la gente diceva “fame”, non era la “fame” nostra». Giuliana Fiorentino Tedeschi, ebrea milanese, racconta così l’ultima sofferenza da affrontare - l’impossibilità di comunicare - che aspettava chi, come lei, tornava da Auschwitz. Lo racconta nelle ultime pagine de Il libro della Shoah italiana di Marcello Pezzetti (Einaudi, pp. 490, euro 42,00): da queste pagine in cui i «salvati» ricordano il ritorno alle proprie case, con sentimenti che, sembra, solo delle metafore bibliche possono descrivere. «Ognuno che veniva era come se ritornava un Padreterno» commenta Mario Limentani. «Sento ‘n gran macello, mamma s’afaccia; quando m’ha visto, allora c’hanno fatto un passaggio, ha visto le acque quando si dividono?» ricorda, in romanesco, il suo riapprodo in ghetto Ester Calò, evocando il passaggio del Mar Rosso. Non è un lieto fine: «Noi non avremo mai la pace, mai. Solo quando moriremo. C’è una cosa che devo dire, con molta fatica: noi abbiamo un rimorso... perché noi siamo riusciti a vivere» confida Alberto Israel. Ed è anche, appunto, quella della deportazione, un’esperienza che sembra non trovare un’arena in cui essere comunicata, nell’Italia uscita dalla guerra. Italia alle cui città i sopravvissuti, nonostante tutto, vogliono in maggioranza fare ritorno, perché, come anche questo libro documenta, nel nostro Paese gli ebrei erano, storicamente, cittadini integrati, nella penisola da un paio di millenni, in più di un caso laici e, nell’Italia del vaticano «non expedit» per i cattolici, i più italiani di tutti. Fascisti perché «patrioti», alcuni, antifascisti per attaccamento a un’idea più alta di convivenza civile, altri. E infatti, se da questo finale si salta all’indietro alle pagine iniziali, lo stesso coro di voci sussurra - idealizza? - la rosea tranquilla vita serena che in famiglia, nel quartiere, nella comunità, si viveva «prima». Gli ebrei popolani o sottoproletari di Roma, straccivendoli, venditori ambulanti, commercianti di biancheria, così come quelli borghesi o altoborghesi di Milano o Trieste, imprenditori, medici, professori universitari, albergatori. Ma anche quelli di Rodi e Corfù strappati dall’occupazione alle loro isole. Il libro della Shoah italiana raccoglie le testimonianze di 105 sopravvissuti. Queste voci sono il risultato ultimo di una vicenda che, racconta Pezzetti, è durata decenni: agli inizi degli anni Trenta gli ebrei in Italia erano 45mila, l’uno per mille della popolazione; nei lager ne fu deportato un quinto, novemila circa; ne tornarono qualche centinaio; solo tra fine anni Ottanta e inizio anni Novanta la Fondazione Cdec (Centro di documentazione ebraica contemporanea) cominciò a raccogliere delle testimonianze audio; ma solamente nel 1992, di fronte a un rigurgito neo-fascista e antisemita - scritte sui negozi del ghetto della capitale - i sopravvissuti cominciarono a manifestare, quasi cinquant’anni dopo, la disponibilità a rompere il silenzio per testimoniare; così, dal primo colloquio con Rachele Levi, ebrea italiano-rodiota, effettuato il 15 giugno 1995, è cominciato un lavoro che ha toccato, con gli intervistati, tutti i luoghi topici della tragedia, Regina Coeli e San Vittore, la montagna da cui con i passeurs si tentava di fuggire in Svizzera e via Tasso, Auschwitz ma anche Israele. Ne sono derivati prima due film, Memoria e un documentario sul lager di Fossoli e, ora, questo volume tremendo ma bellissimo. Perché questo libro sia tremendo non c’è bisogno di spiegarlo. Il suo apice - così come era nei campi - è nella descrizione del «lavoro» del Sonderkommando, qui per voce di Shlomo Venezia, ebreo di Salonicco, comandato al compito ventunenne, con altri 873 compagni di sventura. Da pagina 218 a pagina 225 ecco il racconto in prima persona di chi aveva il compito di accompagnare alle camere a gas i candidati alla morte, - poteva capitare ci fosse tra loro il parente, l’amico - convincerli, mentendo, a spogliarsi, poi ascoltarne le urla, poi entrare in quel macello e doverne estrarre i corpi, per ricavarne ciò che poteva rendere - i capelli, i denti d’oro - e poi, i cadaveri, condurli ai forni crematori. Il «lavoro» raggiungeva ritmi di settecento, mille assassinii al giorno. Shlomo Venezia aggiunge un particolare, di quelli che rendono più di cento parole: ai cadaveri la pelle si staccava, perciò loro avevano escogitato un sistema per trasportarli meglio, «c’erano bastoni a volontà, lì, quelli che usavano i vecchietti, con questi bastoni prendevamo i cadaveri per il collo. In questa maniera praticamente non toccavamo più il morto. Lo trascinavamo» Perché Il libro della Shoah italiana sia bellissimo, invece, va spiegato. È un saggio corale, dove tutte le voci parlano, in successione, raccontando il prima, poi le leggi razziali, la guerra, l’occupazione, la deportazione ad Auschwitz-Birkenau (dove morirono la maggior parte degli ebrei italiani), Buchenwald, Bergen-Belsen, Ravensbrück, Mauthausen, Stutthof, Flossenbürg e Dachau. La liberazione e il rientro. Il ritorno alla vita. E il problema di come parlare del passato. E cosa i «salvati» si aspettassero dal futuro. Ci si affeziona a queste voci, ritrovandole da un capitolo all’altro. Si impara a capirne il carattere. Sono colte, come quelle di Luciana Nissim, compagna di prigionia di Primo Levi, e di Liliana Segre, oppure - per lo più - voci semplicissime di ebrei dei ghetti. Raimondo Di Neris, romano, nelle prime pagine racconta un’infanzia vestita di stracci e povera in un modo oggi inimmaginabile ed è lui che chiude con uno sguardo al futuro di una poeticità meravigliosa: «Io non ci sarò più nel mondo, perché c’ho un’età avanzata, ma io credo che un giorno ci sarà la pace internazionale... nun è vero?». Ora, sessant’anni dopo, grazie al loro coraggio, alle loro testimonianze, e alla possibilità che esse ci danno - un po’ - di condividere, è come se loro, i reduci dall’inferno, e noi, vivessimo di nuovo in un mondo comune.
26 gennaio 2009 L'Unità

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