martedì 20 gennaio 2009

Tutte le donne del Presidente

Jeanne/ModiglianiVersione escursionista o pantera Le donne di Barack vanno da sole
Bianche o nere, grasse o magre. Il loro mantra è «I’m so excited»
Ma Barack Obama è un fidanzato collettivo? Un fidanzato politico platonico (magari in qualche pensiero anche no) globale-totale lietamente condiviso? Oppure è un leader- catalizzatore di speranze- generatore di energie che permette di lasciare a casa (anche col pensiero) i maschi della propria vita per godersi il suo insediamento insieme ad altre femmine? La seconda, probabilmente. In futuro non si sa.
Ma di sicuro, a questa inaugurazione, le donne sono la maggioranza. Girano in gruppetti o in coppie. Nere, bianche, vecchie, giovani, grasse, magre, ricche, povere, ben coperte e semiassiderate. Per una volta non hanno lo sguardo apologetico della donna in viaggio che sembra dire «ehm, non prendetemi per una sfigata perché sono con un’amica, posso spiegare tutto» (perché, poi). Come capita con gli americani, dicono tutte la stessa frase, il solito mantra da pensiero positivo: «Oh, I’m so excited!». Per la presidenza Obama, perché sono qui, perché a qualcosa bisogna pure aggrapparsi, di questi tempi.
Non è un’invasione di amazzoni, non è un’adunata di singles sul Mall venute per commuoversi con Barack come fosse Insonnia d’amore, non è certamente un sabba (oddio, un rito magico con molte donne ieri sera a Dupont Circle c’è stato; l’ha organizzato la comica Kate Clinton, hanno cacciato gli spiriti maligni lasciati da Bush alla Casa Bianca). Succede perché: in America le donne votano democratico più degli uomini, si tengono in contatto tra amiche come non sanno fare tra loro i maschi, si organizzano. E così. Ci sono i gruppetti di trentenni nere che avevano prenotato subito dopo le elezioni; ordinano al ristorante senza remore dietetiche, vestono eleganti con unghie clamorose.
Ci sono le coppie di amiche bianche sui cinquanta che girano per la capitale vestite da escursioniste e nei caffè Starbucks dove tutti siedono col Mac sono le uniche a leggere quotidiani di carta stampata. Ci sono le ragazze che ospitano un’amica nella loro minicasa. E poi ci sono le studentesse universitarie, dormono sul divano di chiunque abbia avventatamente risposto a una loro email due mesi fa. Ci sono anche le allieve delle scuole femminili, in gita insieme a prof e suore entusiaste. Quelle della Mount Saint Mary di Buffalo, New York, erano davanti alla Casa Bianca a fotografare già alle otto di mattina. Insieme a una scolaresca del Kentucky con anziana insegnante contentissima, viene da una cittadina bianca e repubblicana e non credeva di riuscire a portare i suoi alunni.
A varie famiglie afroamericane dal comportamento molto sobrio, tranne quando qualche troupe li placcava e li costringeva ad agitarsi e a urlare «Ooh, I’m so excited» per le telecamere. Agli onnipresenti studenti di college. Eccetera. Molti si sono già congelati al concerto domenica, molti contano di coprirsi bene per arrivare alle sei del mattino sul Mall. Nessuno di loro vedrà Obama se non di sfuggita e da lontano. A nessuno importa più di tanto.
Come in un social network, a Washington, in questi giorni, la comunicazione è orizzontale, a rete, si prova a essere gentili e si parla con chi capita. D’altra parte Obama è diventato presidente anche grazie a Facebook. D’altra parte centinaia di migliaia di persone sono arrivate per festeggiare insieme ad amici che vivono lontani e con cui altrimenti non si vedrebbero mai. D’altra parte gli amici colti, invece di dirti «I’m so excited», ti recitano mantra più evoluti come «preferisco l’audacia della speranza alla timidezza del cinismo». E chi sente pensa «questa non è male»; poi si sistema la sciarpa, il freddo rende più ardito/a il gitante obamiano, ovviamente.
Maria Laura Rodotà 20 gennaio 2009 Corriere della Sera

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