giovedì 26 febbraio 2009

Bisogna aiutarlo

Elizabeth Firestone 1928/De LaszloYaqub: «L'Italia aiuti mio fratello»
L'appello del fratello del giornalista afgano condannato per aver scritto che uomo e donna sono uguali
di Lorenzo Cremonesi
MILANO - È venuto in Italia per cercare di rilanciare l’attenzione sul caso del fratello giornalista in Afghanistan e condannato a vent’anni di carcere per aver sostenuto che le donne hanno gli stessi diritti degli uomini. “Il vostro Paese ha un dovere morale verso l’Afghanistan. Sin da dopo la guerra del 2001 l’Italia si è impegnata a finanziare la ricostruzione del sistema giuridico afghano spendendo tra l’altro decine di milioni di dollari. Ma come mai non fa nulla per fermare l’ingiustizia commessa contro Sayed?”, sostiene polemico Yaqub Parwez Kambakhsh (28 anni).
Sayed Perwiz Kambaksh, il giornalista afgano accusato di blasfemia e condannato per aver scritto sul suo blog che uomo e donna sono uguali davanti a Dio Una brutta storia. Nota in tutto il mondo. Ma che adesso sembra finita nel dimenticatoio. Il collasso del Paese Afghanistan appare dietro l’angolo. Non per nulla Barack Obama manda rinforzi, chiede aiuto agli alleati e alla Nato, mentre la minaccia talebana si allarga sino al Pakistan. E la vicenda di Sayed potrebbe diventare una delle tante, infinite tragedie personali destinate a perdersi nel nulla. Tutto comincia nel 2007, quando il 23enne Sayed, giornalista per i media di Mazar El Sharif (nel nord del Paese), denuncia provocatoriamente sul suo blog che i “mullah estremisti” hanno una lettura distorta del Corano. E si chiede: “Se per l’Islam un uomo può avere quattro mogli, perché mai una donna non può avere quattro mariti?”. Lui è un giovane reporter sconosciuto di provincia. Ma le sue affermazioni fanno scalpore, specie in questo Afghanistan in via di restaurazione religiosa e in pieno ritorno alla tradizione. Sayed viene arrestato, accusato di “blasfemia” e il 27 ottobre 2007 condannato a morte. Intervengono allora le associazioni umanitarie internazionali, si parla di lui sui media di tutto il mondo. Addirittura viene chiesto allo stesso presidente, Hamid Karzai, di intervenire per liberarlo. Ma Karzai temporeggia. “Non può pronunciarsi personalmente in difesa del giornalista. Karzai è in difficoltà, sta perdendo consensi. Teme di venire sconfitto alle elezioni presidenziali, che dovrebbero tenersi a fine agosto 2009. Ha bisogno del voto pashtun e del sostegno dei circoli religiosi. Solo dopo il voto potrebbe forse fare qualche cosa in difesa di Sayed”, spiegano i commentatori più attenti. La soluzione di compromesso è commutare la pena di morte in carcere. Passo che viene compiuto il primo ottobre 2008, quando la pena capitale viene trasformata in 20 anni di cella.
“Ma adesso. Tutto è fermo. Sayed soffre. Noi famigliari, colleghi, amici e avvocati temiamo che possa venire ucciso in carcere, magari avvelenato. Non sarebbe la prima volta”, spiega dunque Yaqub. E’ venuto qui a Milano ospite della Cisda, una associazione non governativa italiana che lavora tra la società civile afghana. Ha chiesto di ottenere un colloquio con rappresentanti del governo. E qualche giorno fa ha incontrato il sottosegretario agli Esteri, Alfredo Mantica. Nei prossimi giorni visiterà altre città europee. Ma Yaqub appare ben poco soddisfatto della tappa italiana. “Mi sembra che le autorità italiane restino distanti. Timorose, non vogliono intervenire nei fatti interni al nostro Paese. Ma in questo modo facilitano il trionfo dell’ingiustizia. Gli ambienti più retrivi tra gli Imam afghani avranno la meglio. Occorre invece che si mobilitino per liberare subito Yaqub e segnalare che il nostro nuovo sistema giuridico garantisce l’individuo e la libertà”, si infervora il giovane. Ci spiega però Mantica: “Certo che seguiamo il caso di Sayed, ci sta molto a cuore e ne siamo preoccupati. Ma non possiamo dimenticare il contesto in cui si svolge. E’ un fatto che i tribunali sono fortemente influenzati dalle autorità religiose. L’Afghanistan laico era già svanito ben prima dell’arrivo dei talebani negli anni Novanta. E noi dobbiamo stare molto attenti che la questione non divenga tema di campagna elettorale. Se viene politicizzata allora non ne usciremo mai più. Meglio attendere a dopo il voto”. Tra le tante ipotesi degli ultimi tempi c’è però anche quella che le elezioni vengano rinviate ulteriormente. E allora? “E’ un’eventualità possibile. Attendere, prendere tempo, serve solo ad aumentare le probabilità che mio fratello venga assassinato. E allora il suo nome sparirà per sempre, diventerà una piccola nota ai margini della storia”, rincara Yaqub. A suo dire, una via di uscita sino a qualche tempo fa ci sarebbe stata: corrompere i giudici, passare bustarelle alle autorità per “comprare la libertà di Sayed”. “Non sarebbe per nulla strano. Anche gli italiani sanno bene che in Afghanistan la corruzione è imperante. Con i soldi i ricchi sono liberi e i poveri finiscono in carcere”, afferma sconsolato. Ma ora anche quella strada è sbarrata: “Ormai la vicenda di Sayed è diventata troppo importante. E’ troppo nota. Nessuno oserebbe mai la via della corruzione per risolverla. Verrebbe denunciato. Almeno in questi mesi. Sayed è diventato la metafora del nostro dramma nazionale”.
Lorenzo Cremonesi 25 febbraio 2009 Corriere della Sera

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