sabato 28 febbraio 2009

Sharon e la morte infinita

GodwardUn’associazione di consumatori: portatelo a casa, date quel letto ad altri
Proposta choc in Israele «Lasciate morire Sharon»
In coma dal 4 gennaio 2006, dopo un'emorragia cerebrale. Medici favorevoli, ma la famiglia è contraria
TEL AVIV — I fiori sono pochi. Le visite degli amici, pochissime. Quelle dei medici, zero. Buon compleanno, Arik. Ottantuno, anche se non lo sai. E nessuno si chiede più dove stai, come stai. Al Dolly Steindling Pavillon, non è difficile trovare la stanza. Indicano il percorso a memoria: vada per la porta secondaria, passi la cafeteria, giri a sinistra finché non trova il cartello, «Neurologia B», e in fondo al corridoio vedrà che c’è un poliziotto di guardia, ecco, proprio l’ultima, quella è la camera di Ariel Sharon, «ma stia sicuro che la fermano prima ». Infatti: l’atrio bianco è come un sudario, unica macchia un mazzo di papaveri su una sedia, e c’è un auricolare umano a dire stop. Di Sharon ci si può fare un’idea, non un’immagine. Men che meno un’opinione.
Sul capitano ferito dagli inglesi, il comandante di tre guerre, l’uomo dei massacri di Sabra e Chatila, il pluriministro, l’undicesimo premier d’Israele, l’inventore del Muro, l’ideatore del Kadima e dello sgombero da Gaza, anche su di lui piomba, in quel letto di coma, la stessa domanda che ha piombato Eluana Englaro, Terri Schiavo, tanti comuni mortali quasi morti: è ora di staccare la spina? Il mito ingombra. E sgomberarlo, complicato. I ruoli si rovesciano e stavolta tocca ai medici, all’opinione pubblica dire che forse basta così, inutile accanirsi tre anni su un vegetale, mentre sono i familiari a mettersi davanti, sbarrare la porta, rispondere risoluti: giù le mani da Sharon. I preti non c’entrano, qui. Né si discute d’eutanasia: non solo, almeno. A sollevare il caso è un’associazione di consumatori, Ometz, che si chiede perché pagare la degenza d’un uomo che è passato per sette interventi al cervello, è ridotto a 50 chili, ha il respiratore attaccato 24 ore su 24, patisce infezioni al cuore che s’alternano a infiammazioni polmonari. I clinici dello Sheba Hospital la pensano allo stesso modo: «Confermiamo che le cure riservate all’ex primo ministro—dice un comunicato un po’ acido — sono superiori a quelle che avrebbe ricevuto un cittadino qualsiasi», e (aggiunge un neurologo sotto anonimato) questo significa che «un altro nelle sue condizioni sarebbe stato dimesso già tre anni fa».
La situazione del resto è la stessa dal 4 gennaio 2006, quando l’emorragia cerebrale stese per sempre Sharon. Quando non servirono le 29 ore di sala operatoria, e poi i mesi di medicine, di fisioterapia e di terapia dell’affetto, gl’innumerevoli tentativi di staccare piano piano il respiratore per vedere se poteva farcela da sé. Sharon ha aperto gli occhi una volta sola, qualche ora, il 31 maggio 2006, e comunque l’iride era fisso, quasi opaco. Nient’altro. Ai tre figli Gilad, Omri, Inban tanto basta, però: «Portarlo a casa oggi, significa staccare il respiratore. E lasciarlo morire». Secondo un sondaggio del sito Starmed.co.il, seimila intervistati, il 72% degli israeliani sta con la famiglia. Ma i consumatori di Ometz insistono: «Con tutto il rispetto dovuto a un uomo che ha dato tanto al Paese, perché non portarlo nel suo ranch del Negev, dov’è sufficiente un’infermiera? Perché l’ospedale deve sopportare i disagi dovuti alla presenza di tanti poliziotti? Perché quella stanza non può essere data a chi ne ha più bisogno? ». In realtà c’è dell’altro e l’associazione rispolvera la polemica sull’ingombrante famiglia che finì nei guai, e pure in carcere, per illeciti finanziari: «La camera di fianco a quella di Sharon — si legge in una lettera al ministero della Sanità — è occupata da uno dei due figli, Gilad, che la usa come un ufficio per gestire i suoi affari: riceve clienti, amici, gente del partito. Che c’entra questo con la malattia?».
Il Generale Bulldozer per ora resta dov’è. E aspettando quello vero, il funerale politico si sta già celebrando, nel silenzio della corsia e dei fidati scudieri d’un tempo. Tacciono la loquace Tzipi Livni e l’Ehud Olmert che fa due dichiarazioni al giorno. Muti gli eredi del Kadima, un partito che non s’è mai ripreso dalla perdita del suo capo e sta pure andando all’opposizione. Nel Ranch dei Sicomori, due ville bianche tra mucche da carne Simmental e colture biologiche, lo spazio per seppellire Ariel è pronto da anni: su un’altura che guarda il Negev, di fianco alla lapide di Lili, la seconda moglie. Anche l’orazione funebre è cosa fatta. L’ha recitata Shimon Peres, qualche giorno fa, parlando del ritiro da Gaza che proprio Sharon volle: «Forse fu un errore», ha detto il presidente. La prima manciata di terra. Su un leader sepolto vivo.
Francesco Battistini 28 febbraio 2009 Corriere della Sera

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