domenica 24 settembre 2006

Never forget: Generale CARLO ALBERTO DALLA CHIESA

F.Bazille


(Saluzzo, CN, 27 settembre 1920 – Palermo 3 settembre 1982) fu un partigiano, un generale dei Carabinieri ed un prefetto italiano, che divenne noto per la lotta contro il terrorismo italiano negli anni Settanta ed in seguito fu ucciso insieme alla moglie in un agguato mafioso.

Figlio d'arte (il padre Romano partecipò alle campagne del Prefetto Mori e nel 1955 sarebbe divenuto vice comandante generale dell'Arma), divenne ufficiale di complemento di fanteria nel 1942, passò all'Arma in s.p.e. e completò gli studi di giurisprudenza; dopo l'armistizio quasi subito entrò nella Resistenza, operando in clandestinità negli Abruzzi e nelle Marche; vi svolse ruoli di un certo rilievo e nel 1944 partecipò alla presa di Roma con le truppe alleate.

Dopo la guerra fu in Campania, avendo per prima destinazione Casoria (comando di Compagnia), ove erano in corso rilevanti operazioni nella lotta al banditismo. Proprio in questa lotta si distinse e nel 1949 fu pertanto inviato su sua richiesta in Sicilia, ove entrò nella formazione delle Forze Repressione Banditismo agli ordini del Generale Luca, che oltre ad avere a che fare con fenomenologie criminali come quelle del bandito Salvatore Giuliano, si occupava anche di arginare le tensioni separatistiche attizzate dall'EVIS e da altri agitatori, nonché delle relazioni fra queste due pericolose sacche di illegalità; nell'isola comandò il Gruppo Squadriglie di Corleone e svolse ruoli importanti e di grande delicatezza, meritando peraltro una medaglia d'argento al valor militare.

Da capitano, indagò sulla scomparsa (poi rivelatasi omicidio) del sindacalista Placido Rizzotto, scoprendone il cadavere che era stato abilmente occultato e giungendo ad indagare e incriminare l'allora emergente boss della mafia Luciano Liggio. Il posto di Rizzotto sarebbe stato preso da Pio La Torre, in questa occasione conosciuto da Dalla Chiesa ed in seguito anch'egli ucciso dalla mafia.

Il nome di Dalla Chiesa sarebbe stato successivamente posto in relazione con le indagini susseguenti all'incidente nel quale perse la vita il presidente dell'ENI Enrico Mattei, il cui aereo era decollato per l'ultimo viaggio dalla Sicilia, ma non vi sono riscontri su questo preciso punto, mentre è accertato che avrebbe indagato in seguito su vicende collegate al caso Mattei.

Ebbe una parentesi di servizio sul Continente, a Firenze, Como e presso il comando della Brigata di Roma, parentesi però caratterizzata anche da un asserito contrasto con il generale Giovanni De Lorenzo, che era divenuto comandante generale dell'Arma e che l'aveva destinato, ormai tenente colonnello, al comando di istituti di istruzione in Piemonte.

Da taluni si sostenne infatti che il trasferimento potesse avere alcunché di punitivo o che comunque si trattasse di un allontanamento di comodo, mentre da altri si ribatté che il De Lorenzo (che aveva in corso la ristrutturazione integrale della Benemerita) veramente volesse che le scuole Allievi Carabinieri fossero dirette da ufficiali di vaglia e non più (come invece secondo prassi militare) da ufficiali di scarso valore o puniti. Il Dalla Chiesa, il cui stato di servizio era effettivamente già ben notevole, era considerato "non sgradito" ad un altro importantissimo esponente dell'Arma, quel generale Aloja che al De Lorenzo aveva vanamente conteso viale Romania e che tuttora si trovava in posizioni più antitetiche che collaborative con il comandante generale.

Nel 1964 passò al coordinamento del nucleo di polizia giudiziaria presso la Corte d'Appello di Milano, che poi unificò e diresse come nuovo gruppo.

Dal 1966 (curiosamente in coincidenza con l'uscita di De Lorenzo dall'Arma) al 1973 tornò in Sicilia con il grado di colonnello, al comando della legione carabinieri di Palermo. Trasse notevoli risultati dalle sue studiate tecniche di investigazione, assicurando alla Giustizia boss come Gerlando Alberti o Frank Coppola ed iniziando a seguire piste che almeno per sussurro avrebbero aperto al successivo disvelamento delle relazioni fra mafia e politica.

Nel 1968 intervenne coi suoi reparti in soccorso delle popolazioni del Belice colpite dal sisma, riportandone una medaglia di bronzo al valor civile per la personale partecipazione "in prima linea" alle operazioni.

Nel 1970 svolse indagini sulla misteriosa scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, il quale poco prima aveva contattato il regista Francesco Rosi promettendogli materiale che lasciava intendere scottante sul caso Mattei. Le indagini furono svolte con ampia collaborazione fra i Carabinieri e la Polizia, per la quale erano dirette da Boris Giuliano, anch'egli in seguito ucciso dalla mafia. Giuliano, peraltro, aveva iniziato ad investigare su molti aspetti operativi ed organizzativi della criminalità organizzata, in una fase in cui venivano alla ribalta personaggi come Michele Sindona e divenivano evidenti (o meno nascondibili) i "nessi" con il mondo politico. Le indagini sul De Mauro, però, non sortirono effetti di rilievo.

Nel 1973 fu promosso al grado di generale di brigata, nel 1974 divenne comandante della regione militare di nord-ovest, con giurisdizione su Piemonte, Valle d'Aosta e Liguria.

Creò una struttura antiterrorismo (con base a Torino), che nel settembre del 1974 gli consentì di catturare (a Pinerolo) Renato Curcio e Alberto Franceschini, esponenti di spicco delle Brigate Rosse, grazie anche all'infiltrazione di Silvano Girotto, detto "frate mitra".

Nel 1977 fu nominato Coordinatore del Servizio di Sicurezza degli Istituti di Prevenzione e Pena; passato generale di divisione, ottenne in seguito (9 agosto 1978) poteri speciali per diretta determinazione governativa e fu nominato Coordinatore delle Forze di Polizia e degli Agenti Informativi per la lotta contro il terrorismo, sorta di reparto operativo speciale ale dirette dipendenze del ministro dell'interno (Virginio Rognoni, che sarebbe restato tale sino a dopo la morte di Dalla Chiesa), creato con particolare riferimento alla lotta alle Brigate rosse ed alla ricerca degli assassini di Aldo Moro.

La concessione di poteri speciali a Dalla Chiesa fu veduta da taluni come pericolosa o impropria (le sinistre estreme la catalogarono come "atto di repressione"), anche per i retaggi sulla opinione pubblica del non tanto remoto periodo buio degli anni Sessanta; ne nacquero polemiche di una certa intensità, via via attenuate e poi smorzate dal ripetersi di brillanti operazioni.

Mise in pratica diverse forme di intervento, in particolare sollecitando ed ottenendo dal governo la formalizzazione di un rapporto privilegiato con la delazione interna, creandosi anche giuridicamente la figura del pentito, che in qualche modo era sempre di fatto stata coltivata nella Penisola a partire dai passaggi di ordinamenti spagnoleschi. Facendo leva sul pentitismo, ma molto sfruttando anche le infiltrazioni (ed agendo quindi con modalità di intelligence) si scoprì molto dell'organizzazione terroristica, si seppe abbastanza per opporvi un efficace contrasto.

Ebbe successo, il generale, nell'individuare ed arrestare gli indiziati esecutori materiali degli omicidi di Moro e della sua scorta, nell'acquisire alla disponibilità delle patrie galere centinaia e centinaia di fiancheggiatori o presunti tali, rassicurando l'opinione pubblica sulla giustezza delle scelte effettuate e riconsegnando al contempo all'Arma una generalizzata fiducia popolare. Ma in epoche successive si sono ricostruiti dettagli che conferiscono a questa parte della sua carrierà spessori e colorazioni di estrema specialità e di qualche indeterminatezza

Erano passati pochi mesi dall'uccisione dello statista, e mentre alcuni indiziati (con pubblico scandalo, ma secondo la legge) venivano rimessi in libertà per decorrenza dei termini della custodia cautelare, spesso dandosi poi alla latitanza, come Nadia Mantovani, nelle indagini i Carabinieri parevano aver unito buone deduzioni a qualche inatteso colpo di fortuna; come fu poi meglio reso noto in seguito, il casuale ritrovamento di un borsello hce si scoprì appartenente al brigatista Lauro Azzolini, identificazione raggiunta attraverso la collaborazione fra più reparti dell'Arma, condusse i militi all'individuazione di un possibile covo, definito "interessante" e situato a Milano, alla via Monte Nevoso. In questo covo che non si riusciva ad individuare per un banale errore sul numero civico, e che fu trovato solo il 1 ottobre, nel 1990, nel corso di una banale ricognizione nell'appartamento sarebbero stati incidentalmente scoperti documenti di estrema importanza sul caso Moro.

Ma tornando al '78, entrato nella carica in questo clima, a pochi giorni dall'insediamento il generale incontrò il giornalista Mino Pecorelli, direttore di "OP", che poco tempo prima aveva pubblicato notizie circa presunte fotocopie della trascrizione dell'interrogatorio cui le BR sottomisero Moro ed aveva commentato, suggerendo una possibile influenza di questi atti su alcune scelte politiche: "Le dichiarazioni postume di Moro potrebbero avere un tal peso politico e, al limite, essere talmente gravi nei confronti di alcuni tra i probabili candidati alla Presidenza della Repubblica, da consigliare le segreterie dei partiti a puntare su un candidato laico" (fu eletto il socialista Sandro Pertini). L'incontro, il cui contenuto è ignoto, sarebbe stato procurato, secondo appunti del Pecorelli, dal politico democristiano Carenini, che successivamente dichiarò di non ricordare ma di non poter escludere la circostanza. Un paio di gioni dopo l'incontro, il capo del governo Giulio Andreotti formalizzò la nomina al comando del nucleo antiterrorismo, per una durata prevista dal successivo 10 settembre al 9 settembre 1979.

Nel dicembre del 1978 il giornalista fiorentino Marcello Coppetti si incontrò con Licio Gelli e con un generale del SIOS dell'aeronautica militare, i quali - dichiarò - gli avrebbero confidato, o piuttosto insinuato, che Dalla Chiesa avrebbe in realtà barattato con Andreotti quella nomina: sempre secondo questa voce, come detto de relato, Dalla Chiesa avrebbe appreso tramite un carabiniere infiltrato che le BR sarebbero state in possesso sia di Moro che di materiale definito "compromettente" (per non si sa chi). Il Coppetti riferì inoltre la "rivelazione" appresa per la quale Dalla Chiesa avrebbe condizionato il recupero di quel materiale alla nomina al nucleo antiterrorismo.

Anch'egli piduista, Pecorelli sembrava comunque, anzi come al solito, assai ben informato. A vedere col senno di poi si rivelò inquietante rileggere che nel settembre (sempre di questo drammatico 1978), aveva pubblicato su OP commenti che da molti osservatori sono stati - a posteriori - reputati riferiti a Dalla Chiesa: trattò infatti di un generale dei Carabinieri che, in corso di sequestro, avrebbe informato del luogo di detenzione di Moro il ministro dell'interno (Francesco Cossiga), ma che questi (sempre secondo Pecorelli) non avrebbe potuto decidere da solo e fosse quindi in attesa, diciamo per via gerarchica, di "istruzioni" da parte di ciò che il giornalista denominò cripticamente "loggia di Cristo in Paradiso". Anche il generale era indicato solo con l'appellativo di "Amen", ma di questi Pecorelli scrisse con sicurezza che sarebbe stato ucciso, ed alluse ad un collegamento con le lettere di Moro dalla prigione brigatista. Dalla Chiesa era stato effettivamente chiamato al Viminale (il 22 marzo, il 10 aprile ed in altre occasioni) durante le riunioni che Cossiga organizzava fra esperti delle forze di intelligence e di polizia.

Il comando del nucleo antiterrorismo di fatto fu investito a più riprese di polemiche e critiche provenienti da ambienti politici esterni all'arco costituzionale, della sinistra estrema e anche, ma più sporadicamente, della destra estrema. Verso lo scadere dell'incarico anche osservatori più moderati si aggiunsero ai critici e Guido Neppi Modona si scagliò (con un certo séguito) dalle pagine de La Repubblica contro il generale per chiedere che non si prorogasse quel comando, a suo dire di indefinibile "collocazione istituzionale" e caso mai espressivo di una politica "delle istituzioni parallele" che si sarebbe servita di "organismi al di fuori della legalità". Alla scadenza l'incarico fu rinnovato, ma stavolta senza termine.

Sempre nel 1979 Dalla Chiesa fu nominato comandante della divisione Pastrengo a Milano e lasciò l'incarico agli istituti di pena.

Nel 1981, nonostante alcune velenose insinuazioni, con accessorie roventi polemiche, avessero riguardato la scoperta del nome del fratello Romolo, anch'egli generale dell'Arma, negli elenchi della P2, e malgrado le polemiche si fossero spinte al punto da dubitare della genuinità del suo operato, a fine anno divenne comunque vice comandante generale dell'Arma, come già il padre. Le polemiche erano scoppiate violentissime perché solo qualche mese prima della pubblicazione delle liste dei piduisti, Dalla Chiesa era memorabilmente apparso in televisione insieme al comandante generale dei Carabinieri ed al suo vice per rassicurare l'opinione pubblica sulla saldezza e sulla "pulizia" delle istituzioni democratiche. Per soprammercato, proprio nel giorno in cui veniva eseguita la famosa perquisizione di Villa Wanda, fu fatto notare, gli uomini del generale stavano eseguendo una gigantesca operazione in cui sarebbero state arrestate circa 300 persone e fermate e/o indagate altre 2500 e si insinuò addirittura che potesse aver sortito effetti di disturbo sull'altra operazione della Guardia di Finanza. Illazioni ed insinuazioni di vasta portata, ma mai sviluppatesi oltre il rango di illazioni ed insinuazioni, in assenza di prove.

Ma nello stesso anno vi fu ancora un altro episodio poco chiaro, che riguardò un consigliere regionale missino del Lazio, Edoardo Formisano (ex segretario personale di Arturo Michelini), che dichiarò alla magistratura di essere stato contattato dal questore di Roma Angelo Mangano, dal poi senatore Claudio Vitalone e da un ufficiale dell'Arma al fine di raccogliere informazioni sul sequestro Moro presso la malavita. Presto attivatosi - così dichiarò - riuscì a stabilire un contatto con Tommaso Buscetta, allora nel carcere di Cuneo, col quale in pratica si sarebbe convenuto di far trasferire un detenuto "fidato" ad altro penitenziario per poter avvicinare soggetti ritenuti utili alle indagini. Il trasferimento - come confermato anche dall'ufficiale, il tenente colonnello Giuseppe Vitali, e dal questore Mangano - sarebbe stato bloccato da Dalla Chiesa che avrebbe escluso categoricamente la possibilità di dar corso all'operazione. Va detto che il Formisano fu in seguito condannato per la messinscena del finto attentato a Bettino Craxi del 1978.

Insomma, coinvolto in turbinose vicende, Dalla Chiesa si assise sulla seconda sedia dell'Arma e fra le polemiche proseguì il suo lavoro, crescendo la parte pubblica delle sua attività, ma anche consolidandosi la sua immagine di ufficiale efficace ed integerrimo.

Interrogato nel febbraio 1982 dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul sequestro e l'omicidio di Aldo Moro, precisamente dal commissario Leonardo Sciascia, dichiarò le sue convinzioni sulle "prime copie" (allora si scriveva a macchina) delle trascrizioni degli interrogatori di Moro prigioniero: dato che dovevano pur esistere, visto che erano state trovate le seconde copie, escluse che potessero trovarsi in qualche covo, ma suggerì che potessero essere in mano di qualcuno che avrebbe "recepito tutto". Particolare che mise in evidenza, nonostante la intuibilissima importanza di simili documenti, malgrado la relativa esiguità dl numero dei componenti le formazioni terroristiche, nessuno dei tanti brigatisti e fiancheggiatori interrogati ne sapeva alcunché od ebbe mai a cennarne, neanche incidentalmente. E le borse di Moro non erano mai state trovate. In pratica, pareva dire fra le righe, qualcuno le ha prese, i BR non le avevano più; il fatto che parte di questi documenti siano invece poi stati trovati nel covo di via Monte Nevoso (o almeno, lì furono "reperiti" documenti che furono messi in relazione con quelli indicati dal generale e qualche osservatore ha insinuato che ciò non fosse casuale e che i documenti non fossero quelli ritrovati), incrementa la complicazione sull'analisi di queste dichiarazioni, contemporaneamente compatibili con l'ipotesi che Dalla Chiesa stesse mandando messaggi in codice, con l'ipotesi che il generale sapesse bene ove fossero i documenti cercati, compatibili perfino con le insinuazioni che Gelli aveva affidato al Coppetti o per converso compatibili con l'ipotesi di una totale lealtà dell'ufficiale.

Il 2 aprile scrisse al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini che la corrente democristiana siciliana facente capo ad Andreotti sarebbe stata la "famiglia politica" più inquinata da contaminazioni mafiose.

Il successivo 2 maggio fu improvvisamente inviato in Sicilia come prefetto di Palermo a combattere l'emergenza mafia. Le indagini sui terroristi furono assegnate ad altri, e di fatto si interruppe la precedente successione di risultati prima di riuscire a fare piena luce su fatti e mandanti.

A Palermo lamentò più volte la carenza di sostegno da parte dello stato (emblematica la sua amara frase: "Mi mandano in una realtà come Palermo, con gli stessi poteri del prefetto di Forlì", città presa come esempio di situazione di lavoro ordinario, non particolarmente difficile), finché fu assassinato dalla mafia.

Il delitto fece particolare sensazione per le modalità "militari" con cui fu eseguito.

Secondo la definitiva ricostruzione giudiziaria, la A112 guidata dalla moglie, e sulla quale viaggiava il prefetto, lungo la via Carini di Palermo fu affiancata da una BMW con a bordo Antonino Madonia e Calogero Ganci (poi pentito), i quali fecero fuoco (parrebbe in realtà il Madonia) attraverso il parabrezza, con un fucile automatico AK-47.

Nello stesso tempo l'auto con a bordo l'autista e agente di scorta del prefetto, Domenico Russo, veniva affiancata da una motocicletta guidata da Pino Greco detto "Scarpuzzedda", che lo freddò. L'A112 sbandò ed il Greco soggiunse a verificare l'esito della sparatoria.

Oltre a questi, vi erano sul posto altri criminali "di riserva" che seguivano con un'altra auto e che sarebbero intervenuti nel caso di una reazione efficace del Russo, che però non ebbe modo di svilupparne

Non è stato accertato se perché sottratte in via Carini oppure se perché trafugate dagli uffici della prefettura, sparirono comunque le carte relative al sequestro Moro, che Dalla Chiesa aveva portato con sé a Palermo.

Dalla Chiesa, non appena insediatosi alla prefettura ed avuta contezza della gravità della situazione della legalità in Sicilia, aveva richiesto al governo italiano, in particolare all'allora ministro democristiano dell'interno Virginio Rognoni, poteri speciali (aggiuntivi) in deroga alla normativa vigente onde poter assumere un controllo o almeno una posizione di coordinamento delle attività investigative dirette alla lotta alla mafia.

Questa richiesta era stata resa pubblica dallo stesso prefetto per mezzo di una intervista ad un importante testata nazionale.

Rognoni avrebbe in seguito dichiarato di aver fissato proprio per il 3 settembre, giorno in cui Dalla Chiesa sarebbe stato ucciso, una riunione dei prefetti per conferirgli questi poteri, ma la riunione all'ultimo momento era stata rimandata al giorno 7.

In seguito tali poteri sarebbero stati conferiti alla nuova carica di Alto Commissario per la lotta alla mafia.

Dalla Chiesa fu insignito di medaglia d'oro al valor civile alla memoria.

Oltre che fratello del detto generale Romolo, Dalla Chiesa fu il padre di Rita, conduttrice televisiva, e di Nando, docente universitario, scrittore e uomo politico, più volte eletto parlamentare.

Da vedere: Cento giorni a Palermo 1984-di G.Ferrara

da Wikipedia.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Dalla Chiesa, hombre cabal