
di Gastone Geron
Per trent’anni era stata la regina delle voci avendo prestato la sua alle più famose dive di Hollywood, dalla leggendaria Greta Garbo a Marlene Dietrich alle non meno popolari Joan Crawford, Bette Davis, Greer Garson, Mirna Loy, Rosalind Russell, Rita Hayworth. Dai primi Anni Trenta sino alle soglie dei Sessanta, Tina Lattanzi (1897-1997) aveva costituito con Rina Morelli, Andreina Pagnani, Lidia Simoneschi, il quadrumvirato femminile del doppiaggio, meritandosi a più riprese la grata ammirazione di dive non proclivi ad espliciti riconoscimenti. Ma trent’anni non hanno costituito, in fondo, che una parentesi nella lunghissima e movimentata esistenza di un’attrice che di anni ne ha vissuti più del triplo, mancando per poche settimane il traguardo del secolo, e per l’intero arco del Novecento è trascorsa impavida dal teatro, al cinema, alla radio, alla Tv con lo stesso disarmante sorriso con cui un lontano giorno aveva dato addio – e pareva per sempre – al palcoscenico. (...) Al teatro Tina era arrivata relativamente tardi, e per caso, quando nel 1928 era già madre di due bambini. Per vincere la noia del tran-tran familiare, poco confacente al suo temperamento vulcanico, aveva deciso di prendere lezioni di dizione da un vecchio teatrante che aveva recitato nella Compagnia di Eleonora Duse. Costui un giorno la accompagnò al romano Teatro Costanzi con la scusa di farla assistere alle prove della Fedra di D’Annunzio che Teresa Franchini stava mettendo in scena con Gabriellino, figlio del Vate, nel ruolo del figliastro Ippolito. In realtà il vecchio insegnante aveva già proposto la sua allieva per il ruolo di una schiava tebana, sicché "l’occasionale presenza" della trentenne signora Lattanzi, si tramutò in un vero e proprio provino, così felicemente superato da ottenere subito la parte. Quello che era sembrato un episodio senza seguito, il capriccio della giovane moglie di un dottissimo quanto severo professore di liceo, sfociò invece un anno dopo, ed ancora per caso, in una vera e propria scrittura, risultando galeotta una recita univer-sitaria nel corso della quale la bella Tina ("bella come una Madonna" per dirla con il commediografo e critico Marco Praga) conobbe un simpatico giovanotto che si chiamava Vittorio De Sica deciso a piantare gli studi per darsi "all’arte". Fu il galante Vittorio – chissà se fu lei a contagiarlo con la passione del gioco, o viceversa – a presentarla alla sua maestra di recitazione Tatiana Pavlova che nel suo approssimativo italiano e con i tipici slanci di una russa facile agli entusiasmi, sentenziò che "in mia patria duonna così bellissima subito diventare grande attrice, grandissima attrice". L’immediata scrittura nella Compagnia della Pavlova (cui va riconosciuto il merito storico di aver introdotto in Italia la funzione del regista e di aver patrocinato "l’immedesimazione" predicata dal metodo Stanislavskji") comportò non pochi problemi per una madre di due figli con un marito immerso nei prediletti studi letterari. Ma una serie di fortunate circostanze le consentì di spiccare il volo, affinandosi progressivamente attraverso le esperienze compiute nelle primarie Compagnie capeggiate da Italia Almirante Manzini, Febo Mari, Ruggero Ruggeri, Renato Cialente, Luigi Cimara. Quando le stava spalancandosi dinanzi la strada della consacrazione definitiva, l’incostante, passionale, irriflessiva Tina si lasciò trascinare dal suo focoso temperamento voltando le spalle al teatro in nome dell’amore. Già da tempo in crisi con l’ottimo ma pedante marito, la signora Lattanzi s’era invaghita perdutamente del regista cinematografico Guido Brignone, padre del’indimenticabile Lilla, e per potergli restare vicino, sottraendosi alla tirannia delle estenuanti "tournées", decise di abbandonare le scene per dedicarsi a Roma – niente più faticose trasferte – al ben remunerato doppiaggio. Era il 1932 ed il sodalizio con il regista di Teresa Confalonieri, Lorenzino de’ Medici, Ginevra degli Almieri, ma anche di Chi è più felice di me e di Torna caro ideal, si protrasse per trent’anni, quanti appunto Tina ha speso nelle buie sale di doppiaggio alle prese con i famigerati "anelli" – segmenti del filmato originale – di un mestiere che ben presto le venne a noia malgrado i sempre più crescenti apprezzamenti e l’ormai acquisita fama internazionale. Maestra della voce Dopo la scomparsa dell’uomo della sua vita, Tina Lattanzi continuò a negarsi al palcoscenico, confessandosi più divertita che desolata – durante una mia visita nella sua casa milanese in zona Sempione – come in un "raptus" di imprenditorialità avesse addirittura aperto a Roma una "boutique" risultata altrettanto mangiasoldi del prediletto tappeto verde. Per qualche anno insegnante di recitazione al Centro sperimentale di cinematografia (aveva avuto tra gli allievi Claudia Cardinale), il suo ritorno in teatro avvenne nel 1962 e fu un’ennesima volta dovuto al destino che, nel caso in questione, vestiva i panni di un impresario cointeressato nel lancio del musical My fair Lady con Delia Scala. L’unico risultato ottenuto dalla "rentrée" furono nove mesi di busta-paga bruciati in un paio di notti al Casinò di Venezia durante una digressione lagunare della "regina delle voci". E proprio tra le regine-madri che vegliano attorno alla vasca da bagno di Edoardo II di Inghilterra la rividi al torinese Cabaret Voltaire nel 1978, accanto all’amica Paola Borboni, a Diana Dei e Zara Velcova a far da corona, per restare in argomento, a Riccardo Reim nel ruolo di Lady Edoardo protagonista del provocatorio spettacolo allestito da Aldo Trionfo. La signora dai capelli bianchi "alla maschietta", tante volte comparsa nel salotto televisivo di Maurizio Costanzo a rallegrare la compiaciuta platea con le sue uscite birichine, rimase sulla breccia fino al 1981 allorché fu ancora una volta regina-madre in Beckett e il suo re di Jean Anouilh, nuovamente richiamata alla ribalta da Aldo Trionfo. L’allora ottantaquattrenne maestra e bandiera di tre generazioni di attori contenne in maniera esemplare la nativa tentazione alla coloritura accentuata del personaggio spiegandomi qualche giorno dopo, in un casuale incontro nella "hall" del milanese teatro San Babila, che aveva molto apprezzato le benevole attenzioni della critica nei suoi confronti ma che la vera gioia l’aveva provata un paio di giorni prima quando, approfittando del lunedì di riposo, le era riuscito di vincere quasi un milione al poker. Non la rividi più negli ultimi anni della sua lunga parabola esistenziale quando, ormai quasi cieca e malferma sulle gambe, a farle compagnia era rimasto solo il fedele barboncino bianco Ciquito. L’ultima volta che le telefonai finse un’euforia sopra le righe per nascondere l’imbarazzo di ultranonagenaria costretta a vivere da sola non potendosi permettere l’assistenza diurna e notturna di una persona di fiducia. Seppi non molto tempo dopo che sarebbe stata la sua cara amica Ilaria Occhini a darle la buona notizia che le era stato accordato il vitalizio previsto dalla "legge Bacchelli". La semicecità, l’assalto impetuoso degli acciacchi, le sottaciute ristrettezze economiche le impedirono in ultimo non soltanto di mettere piede in un Casinò, nemmeno di sedersi ad un tavolo per un giro di poker, qualche smazzata di scala quaranta o di pinnacolo. Non gradiva nemmeno più i complimenti per i sempre più prossimi cento anni, quasi le avessero rubato quella "incoscienza di vivere" che era stata il suo lungo orgoglio. Grande amica di Anna Magnani, di cui condivideva la generosità al limite della dissipazione, altrettanto "tifosa" di Elsa Merlini, in perenne quanto simpatico confronto con Paola Borboni, in rotta da sempre con Marta Abba, "la signora delle voci" tanto amata in gioventù per la folgorante bellezza ed in vecchiaia per l’anticonformistico carattere estroverso, ha fatto in definitiva suo l’aforisma di Oscar Wilde secondo il quale non c’è che una cosa peggiore della fama: non averla.http://www.sipario.it/tinalattanzi.htm dipinto di Hassam.
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