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Robert Bresson
Robert Bresson (Bromont-Lamothe, 25 settembre 1901 – Parigi, 18 dicembre 1999) è stato un regista, sceneggiatore e soggettista francese, maestro del minimalismo. Bresson inizia la sua carriera come pittore e fotografo. Realizza il suo primo film, il mediometraggio Les affaires publiques nel 1934. Il film, che non uscirà mai nelle sale, racconta tre giornate di un dittatore immaginario in un linguaggio definito dall'autore stesso burlesque. Delle poche copie, ritenute perse per sempre, una sola è stata recuperata ed è custodita a Parigi presso la Cinématheque Française. Durante la Seconda guerra mondiale, Bresson trascorre oltre un anno come prigioniero di guerra e si servirà di questa sua esperienza anni dopo, nel girare Un condannato a morte è fuggito. Nel 1943, nella Francia di Pétain e dell'occupazione tedesca, esce il suo primo lungometraggio, La conversa di Belfort (Les Anges du péché), basato sul soggetto di un padre domenicano, con dialoghi scritti da Jean Giraudoux. Il film descrive la vita in una congregazione di religiose in cui il male convive con il bene, ossia un convento in cui le suore riabilitanti accolgono "peccatrici" che si confondono sotto lo stesso abito. Per il suo progetto successivo, Perfidia (Les dames du Bois de Boulogne) del 1945, Bresson si serve di un lungo dialogo-racconto tratto da Jacques il fatalista di Denis Diderot, sfrondandolo di ogni complicazione romanzesca e di molte figure di sfondo. Pur impreziosito dai dialoghi di Jean Cocteau e dalla presenza di Maria Casarès, brillante e famosa attrice di teatro nel ruolo della protagonista, il film è un clamoroso fallimento commerciale e viene ritirato dopo pochissimi giorni dalle sale di prima visione. Nel 1950 esce Il diario di un curato di campagna (Le Journal d'un curé de campagne), tratto dall'omonimo romanzo di Georges Bernanos e considerato dalla critica il film della svolta spirituale, il primo in cui il regista esprime pienamente il suo stile austero, privo di melodrammaticità e di ogni psicologismo letterario. Il 1956 è l'anno del suo film più noto, Un condannato a morte è fuggito (Un condamné à mort s'est échappé ou Le vent souffle où il veut). Tratto da un racconto autobiografico di André Devigny comparso su Le Figaro Littéraire del 20 dicembre 1954, poi ripreso e ampliato su volume, il film viene girato con scarsissimi mezzi e si concentra su pochi, essenziali oggetti e luoghi diventando una delle testimonianze più asciutte ed essenziali sulla Resistenza francese. L'anno successivo vince il premio per la miglior regia al Festival di Cannes e viene favorevolmente accolto da pubblico e critica. Nonostante il titolo, che farebbe pensare a un poliziesco, il successivo Diario di un ladro (Pickpocket) (1959) è un film psicologico e riprende, in chiave spirituale, il tema della redenzione di Delitto e castigo. Nel 1962 Bresson gira Processo di Giovanna d'Arco (Procès de Jeanne d'Arc), forse il suo film più difficile, in cui l'essenzialità è portata al massimo. Più importante nella sua carriera il successivo Au hasard Balthazar (1966), una parabola sulla vita e la morte di un asino che diventa una riflessione sul male e sulle sue influenze sulla vita degli uomini. Mouchette - Tutta la vita in una notte del 1967, nuovamente tratto da un romanzo di Bernanos, è anch'esso una cupa riflessione sul male attraverso la storia del suicidio di una giovane donna. Così bella, così dolce (1969) descrive ancora il suicidio di una giovane donna, e, in flashback, la storia della sua vita di coppia della piccola borghesia parigina. Per la prima volta Bresson in questo film fa uso del colore, e per la prima volta compare sullo schermo la giovane e bella Dominique Sanda, una delle pochissime interpreti bressoniane che avranno in seguito una carriera come attrici professioniste. Il film è tratto da La mite, un racconto di Dostoevskij, così come il successivo Quattro notti di un sognatore, tratto dallo stesso Le notti bianche di cui Luchino Visconti si era servito per il suo omonimo lavoro del 1957. Nel 1974 arriva Lancillotto e Ginevra, film dal budget importante e unico lavoro "storico" di Bresson se si eccettua il Processo di Giovanna d'Arco. Lo stile asciutto del regista evita di soffermarsi sui costumi e sulle scenografie della ricostruzione storica, filmando i personaggi come se si muovessero su uno scenario dei nostri giorni. Il diavolo probabilmente, controverso film del 1977, offre uno spaccato pessimista sulla gioventù dell'epoca attraverso considerazioni sul marxismo, sull'ecologia e sulla sessualità. L'argent, ultimo film del regista, è del 1983. Ispirato ad un racconto di Tolstoj, partecipa al Festival di Cannes vincendo il Grand Prix du cinéma de création. Nel 1976, Bresson pubblica Notes sur le Cinématographe, una sorta di manifesto del suo cinema nel quale differenzia la cinematografia dal cinema: mentre un film è solo "teatro filmato" la cinematografia è un tentativo di creare un nuovo linguaggio di immagini e suoni tramite il montaggio. Quello che colpisce di più nel cinema di Bresson è l'apparente assenza di recitazione. Bresson sosteneva che nei film ci fosse una convenzione riguardo a cosa lo spettatore dovesse sentire e pensare, sottolineato da effetti come la musica, il montaggio e la recitazione; e che, di conseguenza, riducendo questi codici al minimo, si potevano ottenere delle risposte emotive più dirette da parte degli spettatori. Nel cinema tradizionale era l'attore, attraverso la sua recitazione e le espressioni facciali, a trasmettere allo spettatore le sue emozioni. Con il cinema di Bresson è lo spettatore stesso a indovinare gli stati d'animo dei protagonisti a seconda del contesto in cui essi si trovano. Bresson era solito ingaggiare persone comuni e girare scena dopo scena fino a quando la recitazione spariva del tutto. Agli attori chiedeva semplicemente di "dire" le battute e compiere le azioni richieste. Dipinto di Redon
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