venerdì 21 novembre 2008

Faccia tosta

Claude Firmin"Clemè, che devo fa?"E Mastella disse: resisti
La settimana da protagonista assediato dell'ultimo dc
FABIO MARTINI
ROMA Si è fatta sera, su palazzo di San Macuto sta precipitando una pioggia di scomuniche mai viste prima. Il gelo del Quirinale. Il caldo invito del presidente del Consiglio Silvio Berlusconi a farsi da parte. Quello del presidente del Senato Renato Schifani. Quello del presidente della Camera Gianfranco Fini. Il Partito democratico lo ha espulso. Ma lui, il presidente della Commissione di Vigilanza Rai, il professor Riccardo Villari - chiuso nel palazzo un tempo sede della Santa e spietata Inquisizione - non batte ciglio e ad un amico ministro che lo chiama per capire, confida: «Tu mi conosci, io non mi dimetterò. Resto. Il Parlamento non appartiene ai leader di partito». Cinque ore prima, alle 15, Villari aveva stupito tutti, restando al suo posto e qualche minuto più tardi Italo Bocchino - vicepresidente dei deputati Pdl e regista dell’operazione - entrando a Montecitorio confidava al cronista: «Chi pensa che la resistenza di Villari sia destinata a far guadagnare qualche giorno alla trattativa sulla Rai, credo che non conosca di che pasta sia fatto il personaggio: un democristiano vero, storico, uno per il quale il vocabolo dimissioni non esiste!». Certo, una battuta pronunciata in modo scherzoso e senza intenzioni profetiche perché forse nessuno sa come andrà a finire questa storia. Ma ieri notte, dopo l’appello più corale e bipartisan della Seconda Repubblica, Riccardo Villari effettivamente non si è dimesso, coerente con quanto confidato agli amici a fine giornata. Personaggio che i giornali avevano immaginato di inscatolare nel canone del «mastelliano trasformista». Stereotipo che gli sta stretto, o largo, a seconda dei punti di vista. Cinquantadue anni, una giovinezza vissuta tra gli agi dell’alta borghesia partenopea, una cattedra all’Università Federico II, una villa a Capri, ma senza per questo essere un gagà, Villari non è un napoletano chiacchierone e spaccone, ma uno che ascolta prima di parlare. Certo, la sua scuola è quella della Dc dorotea di Enzo Scotti, detto «Tarzan», il potere per il potere, l’uomo è tosto e ambizioso e la sua storia politica dimostra una capacità non comune di «trasformarsi» secondo la tradizione italica.E la sua «agenda», in questa prima settimana da Presidente, dimostra che l’uomo, nel suo genere, ci sa fare, ha le ossa dure e lo stomaco di chi è capace di combattere battaglie che ad altri farebbero venire il mal di stomaco. Nella prima ora da Presidente fa mettere agli atti due affermazioni stentoree e rassicuranti - mi rimetterò alle decisioni del mio partito, mi farò da parte appena ci sarà una soluzione condivisa - destinate ad essere annientate dal suo stesso autore. Si inventa un «giro istituzionale» che nessun galateo imporrebbe. La sua prima telefonata è per il presidente del Senato Renato Schifani: «Caro presidente, quando torni in Italia, possiamo vederci?». La seconda telefonata è per Clemente Mastella, un maestro dell’equilibrismo: «Cleme’ che devo fare?». E l’altro: «Resisti». La terza telefonata è per Massimo D’Alema. Il presidente non si fa trovare e Villari lascia detto alla segretaria: «La mia è una telefonata di rispetto». La sera dell’elezione va a dormire nel suo piéd-à-terre vicino a piazza di Spagna e coricandosi, non deve togliersi l’orologio: come racconta l’amica Carla Della Corte «non lo porta mai, Riccardo non si separa mai da corni e San Gennari». E l’indomani mattina, mentre infuria la bufera, Villari il tosto non cambia la sua agenda: mentre il cellulare squilla dalle 7 come un flipper impazzito, non rinuncia alla consueta seduta di jogging nella vicinissima Villa Borghese. Venerdì 14 lo trascorre nascondendosi dagli amici, soprattutto da uno che chiama insistentemente: è l’unico che ha il potere e gli «argomenti» per dissuaderlo, il «capocorrente» Franco Marini. Nel sabato e la domenica trascorsi a Napoli scoraggia chi lo vorrebbe con sé per le consuete «epiche mangiate di pesce tra Nerano e Capri», raccontate dal suo amico Enrico Di Salvo. Dice di sé Villari: «Sono scaramantico», eppure nella sua agenda il giorno decisivo ha il numero 17. Alle due di lunedì il presidente «ribelle» ha l’appuntamento clou con Walter Veltroni e prima di entrare confida ad un amico del Pd: «Un’altra soluzione condivisa non esiste, l’unica sono io!». Eccolo, il suo vero piano, sin dal primo giorno, che non tutti hanno capito: restare nel Pd e alla fine restare alla guida della Vigilanza, con l’estenuato accordo di tutti. Ma l’incontro con Veltroni va malissimo e dal cilindro spunta Sergio Zavoli. Per «Riccardone» sembra la fine, ma lui non molla e un vecchio amico napoletano come il ministro Gianfranco Rotondi è pronto a scommettere che nella sua agenda Villari, ha già scritto il prossimo appuntamento: «Parlare agli italiani a “Porta a Porta”, per dimostrare che i partitocratici sono quelli che lo vogliono cacciare». da La Stampa

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