domenica 28 dicembre 2008

Il commento domenicale di Scalfari

MorrisLa triste storia dell'Italia corrotta
di EUGENIO SCALFARI
L'ITALIA è una nazione corrotta? Da sempre o da quando? E corrotto il popolo, la società nel suo complesso? Oppure è corrotta soltanto la classe dirigente del Paese e il popolo assiste, passivo e stupefatto, a questo devastante fenomeno? Questo gruppo di domande è di nuovo alla ribalta, il tema è di nuovo di incalzante attualità e si torna a parlare dei mezzi necessari a porvi rimedio; il governo ha messo all'ordine del giorno la riforma della giustizia con il dichiarato obiettivo di affrontare le malformità dell'ordine giudiziario e di stroncare l'immoralità dilagante: un soprassalto degno di nota poiché il capo del governo è uno degli esempi più vistosi dell'immoralità pubblica o almeno così è percepito da una parte rilevante della pubblica opinione. Appena ieri la questione morale è stata presa di petto da Giuseppe De Rita sul Corriere della Sera e da Guido Crainz su Repubblica. Quest'ultimo ne ha addirittura fatto la storia citando coloro che se ne sono occupati a partire dal 1970, molto prima della nascita di Tangentopoli che ebbe inizio nel 1992 e che contribuì ad affondare la Prima Repubblica senza tuttavia riuscire ad estirpare la corruzione che continua come e più di prima a devastare la fibra del Paese. Siamo dunque condannati senza scampo a portarci appresso questa piaga purulenta che resiste ad ogni medicina e ad ogni chirurgia? In realtà il fenomeno è molto più antico, le sue radici affondano non già nel passato prossimo ma in quello remoto. Molto prima dell'ultima guerra e molto prima del fascismo, l'Italia liberale e monarchica era infetta nelle midolla e non mancavano neppure allora intellettuali e artisti che denunciavano con parole di fuoco il trasformismo e la corruzione. Gabriele D'Annunzio apostrofava Nitti con il soprannome di "cagoia", Salvemini prima ancora lanciava contro Giolitti pesantissime accuse.
A monte la questione morale aveva travolto Crispi e lo scandalo della Banca Romana aveva coinvolto addirittura la monarchia. "I Vicerè", il grande romanzo storico di De Roberto è un documento spietato del malaffare nelle classi dirigenti meridionali. Lo Stato unitario ancora non esisteva ma la corruzione infestava da tempo il regno borbonico e quello papalino. Per non parlare della "romanità": l'impero dei Cesari, anche nella fase gloriosa degli inizi e ancora più indietro risalendo a Pompeo, Catilina, Mario e alla schiera dei proconsoli che depredavano le provincie a beneficio dei propri patrimoni, fu un "combinat" di forza militare e di corruttela pubblica. Nel "De Bello Jugurtino" Sallustio fa dire a Giugurta, re di Numidia, la storica frase: "Roma, venderesti te stessa se trovassi un compratore". Dunque esiste una vocazione fatale alla corruttela che inchioda da più di due millenni la nazione latina e poi quella italica e italiana a questa peste devastante? * * * Mettiamo da parte la Roma dei proconsoli e dei Cesari: depredò i sudditi a vantaggio dell'erario e dei suoi titolari come è stato fatto da tutti gli imperi. Restiamo all'Italia moderna. Qui da noi lo Stato unitario ha avuto una presenza evanescente, estranea, lontana, vissuto più come sopraffattore che come garante del patto sociale. Più come autore di violenza che tutore di legalità. Il popolo non ha partecipato ma ha soltanto assistito alla nascita dello Stato. Quando esso si costituì il 75 per cento della popolazione era formata da contadini. Fuori dalle istituzioni, fuori dal mercato. Consumavano le poche derrate che producevano, non avevano ospedali, non mandavano i figli a scuola, le sole presenze istituzionali erano i carabinieri e gli agenti delle imposte. E i preti. Non facevano notizia i contadini. Nascevano, figliavano, morivano. L'opinione pubblica rappresentava soltanto il 25 per cento. Proprietari fondiari, commercianti, industriali, magistrati, professionisti, maestri e docenti, impiegati. Da questa fetta sottile della società emergeva la classe dirigente, i capi delle amministrazioni locali e nazionale, gli ufficiali dell'esercito, gli imprenditori. Insomma la borghesia e la piccola borghesia. I deputati. Lo Stato galleggiava sulla società la quale a sua volta galleggiava sulla moltitudine dei contadini e sui primi nuclei della classe operaia. Lo Stato non era un simbolo né lo era la Patria. Per la maggior parte quelle parole erano sconosciute, prive di significato. Per una parte minore erano depositi di potenza legale da occupare a proprio beneficio. Domenica scorsa ho citato l'intervista del 1981 dove Enrico Berlinguer descrive l'occupazione dello Stato e delle istituzioni da parte dei partiti, ma avrei potuto citare quasi con le stesse parole Salvemini, De Viti De Marco, Maffeo Pantaleoni, Mosca, Pareto, Luigi Einaudi, Giustino Fortunato, di cinquanta e ottanta anni prima del leader del Pci. La corruzione italiana è un fenomeno che deriva direttamente dall'estraneità dello Stato rispetto al popolo, dall'esistenza d'una classe dirigente barricata a difesa dei suoi privilegi, dall'appropriazione delle risorse pubbliche da parte dei potenti di turno, dal proliferare delle corporazioni con proprie deontologie, propri statuti, propri privilegi; dalla criminalità organizzata e governata da leggi e codici propri. Infine, in assenza di una legalità riconosciuta, dalla necessità di supplire a quell'assenza con la corruzione spicciola, necessaria per mitigare l'arbitrio con la compravendita di indulgenze civili come da sempre ha fatto la Chiesa con le indulgenze religiose. * * * Mi domando se la corruzione pubblica sia un fatto solo italiano. L'ovvia risposta è no, non è solo un fatto italiano, s'incontra in tutti i paesi, dove c'è la democrazia e dove c'è la dittatura, con economie mature o sottosviluppate. Dovunque i titolari del potere si appropriano d'una quota in più di quanto gli spetterebbe, dovunque i furbi accalappiano gli allocchi i quali cercano di rivalersi sui più allocchi di loro. Ma in Italia c'è un elemento aggravante in più: la fatiscenza dello Stato, la debolezza delle istituzioni di garanzia, l'evanescenza dello stato di diritto. Qui la verità storica impone tuttavia un approfondimento dei fatti come si sono sviluppati nel corso del tempo. C'è stato nell'ultimo secolo un graduale aumento di partecipazione del popolo alla vita pubblica, un inizio di radicamento delle istituzioni nella società. Quest'azione educativa ha avuto come promotori il movimento socialista, il partito comunista italiano, il movimento sindacale. Nell'ultimo cinquantennio vi è stato anche un forte contributo da parte dei cattolici democratici che hanno vinto i "non possumus" emanati per oltre mezzo secolo dal Papato contro lo Stato, con il nefasto effetto di confiscare la libertà politica dei cattolici separandoli dalle istituzioni del loro paese: un fatto tutt'altro che marginale (che registra purtroppo alcuni attuali ritorni all'indietro) senza riscontro nelle democrazie d'Europa e d'America. * * * Se c'è stato - e c'è sicuramente stato - un processo di sviluppo democratico, esso è dovuto in larga misura alla sinistra italiana. Tanto maggiore è quindi la preoccupazione più che mai attuale di assistere ad uno scadimento anche nella sinistra per quanto riguarda gli standard di moralità. Probabilmente lo scadimento è stato ingrandito dall'avventatezza di magistrati che dal canto loro hanno smarrito in alcune circostanze i criteri di prudenza doverosi negli accertamenti di supposti reati. I partiti dal canto loro hanno abbassato la vigilanza consentendo che il malaffare entrasse anche in luoghi politici che finora gli erano stati preclusi. Ma la vera causa è quella indicata a suo tempo da Berlinguer: le forze politiche non debbono occupare le istituzioni, gli organi di garanzia debbono vigilare e colpire senza riguardo ai colori di bandiera, la magistratura deve funzionare come organo di controllo della legalità, la stampa deve imparare meglio e di più il suo officio di contropotere. Da questo punto di vista una riforma della giustizia s'impone e dovrà concentrarsi su tre obiettivi: 1. la riforma del processo penale e civile affinché sia resa giustizia in tempi ragionevolmente brevi; questo è un obiettivo essenziale che i cittadini reclamano e senza il quale non si avrà alcuna riforma degna del nome. 2. Il conferimento dell'azione penale nelle mani del capo della Procura, che distribuisca il lavoro ai suoi assistenti con criteri certi e oggettivi. 3. La separazione delle funzioni tra magistrati inquirenti e giudicanti senza tuttavia dividere in due l'ordine giudiziario al quale tutte e due quelle funzioni appartengono. Ieri il presidente del Consiglio, con una più che mai vistosa capriola rispetto a quanto aveva appena detto, ha modificato l'ordine delle priorità del governo: alla ripresa dei lavori parlamentari ci sarà anzitutto il federalismo fiscale; la riforma della giustizia verrà dopo. Quanto al presidenzialismo, per ora è uscito dalla tabella delle priorità. Evidentemente la Lega e Fini hanno prevalso sulla fretta di Berlusconi di stringere i tempi della svolta autoritaria. Anche la libera stampa ha contribuito a questa svolta di saggezza e vi ha contribuito soprattutto la ferma resistenza dell'opposizione a minacce e lusinghe. Né le une né le altre sono mancate. Il fatto che non abbiano avuto successo dà buone speranze per il futuro
(28 dicembre 2008) Repubblica

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