martedì 16 dicembre 2008

La morte di Carlo Caracciolo

Georges LemmenMezzo secolo insieme
di EUGENIO SCALFARI
Il nostro è un mestiere crudele e io lo so per diretta esperienza. Oggi tocca a me di scrivere il nostro addio a Carlo Caracciolo, il mio lamento su una persona alla quale mi legano 56 anni di vita comune. Vita professionale e vita privata, successi e insuccessi, amicizie e inimicizie, convinzioni politiche, esperienze, interessi. Un mestiere crudele che mi obbliga a scriverne mentre Carlo è ancora vivo e riverso senza più conoscenza su un letto d'ospedale. Era malato da molto tempo e aveva attraversato le avversità della malattia con una forza come raramente accade di vedere, quasi indifferente a quanto accadeva nel suo corpo. Quattro o cinque volte, dopo aver superato momenti di crisi che avrebbero potuto essergli fatali, me ne raccontava gli aspetti che gli sembravano comici e ci ridevamo insieme come ragazzi. Poco più che ragazzi eravamo quando ci conoscemmo. Fu a Milano, autunno del 1952, nella sua abitazione in via San Damiano sul naviglio di corso Monforte. Lui già faceva l'editore di riviste tecniche, io ero stato da poco licenziato dalla Banca Nazionale del Lavoro a causa di irriverenti articoli pubblicati dal Mondo contro la Federconsorzi. Carlo cercava un direttore per la sua rivista Rivoluzione industriale, pensava che io fossi adatto a quel compito ma io rifiutai. Aveva 27 anni, io ero più vecchio d'un anno e qualche mese. Di solito, quando debbo ricordare una persona scomparsa, cerco di raccontare quello che so di lei evitando il vezzo diffuso e intollerabile di raccontare se stessi, ma questa volta mi è impossibile seguire la regola che mi sono data: le nostre due esistenze sono state così intrecciate che ricordare uno dei due implica di ricordare anche l'altro sicché in questo caso diventa vero il luogo comune che un pezzo della mia vita se ne va con lui sotto la terra che ricoprirà il suo corpo o le sue ceneri. *** Nell'ottobre del 1955 L'espresso iniziò le sue pubblicazioni. Proprietario ed editore Adriano Olivetti. Carlo era suo socio con il 10% delle azioni. Arrigo Benedetti lo dirigeva, io ne ero il direttore amministrativo. Ma dopo poco più d'un anno Adriano decise di ritirarsi da quell'impresa che aveva messo in orbita ma non gli corrispondeva. Lasciò il grosso delle sue azioni a Caracciolo e in piccola parte a Benedetti e a me. Fu a quel punto che la nostra amicizia diventò fratellanza.
Eppure eravamo molto diversi per carattere e per estrazione sociale. Io venivo da una famiglia di piccola borghesia, lui era principe, anche se non ha mai ostentato il rango di nobiltà. A tal punto che per molti anni ho pensato che l'avesse cancellato e non gliene fosse mai importato niente, lui giovanissimo partigiano in Val d'Ossola, lui repubblicano, lui laico pur avendo avuto parecchi cardinali in famiglia e un paio di beati. Invece no, la sua indifferenza al titolo nobiliare era piuttosto una maniera ma non corrispondeva alla sostanza: si sentiva principe e lo era, il suo distacco faceva parte del costume familiare come la sua innata eleganza nei modi e nei pensieri. La sua ironia su se stesso e sugli altri. Il suo cinismo. La fermezza delle convinzioni. Il suo impegno civile. Fu una curiosa figura di principe, Carlo Caracciolo di Castagneto, conte di Mileto e altri predicati che non ricordo. Ricordo però una visita che facemmo insieme molti anni fa al Comune di Napoli. C'erano ai lati del portone di quell'edificio due lapidi di marmo sulle quali erano incisi i nomi dei patrioti trucidati nel 1799, quando le bande contadine da un lato e la flotta inglese dall'altro rioccuparono la città ribelle e giustiziarono i "giacobini" che avevano governato la breve esistenza della repubblica partenopea. In quell'elenco c'era il nome dell'ammiraglio Caracciolo, impiccato da Nelson sull'albero di maestra della sua nave, e quello di Marcello Eusebio Scotti, mio antico parente materno. Quella compresenza politica di due avi ci sembrò un segno di destino; la mettemmo sullo scherzo come era nostra abitudine, ma ci toccò profondamente come poi ci confessammo qualche anno dopo. *** Nel 1976 fondammo la Repubblica. Da tempo avere un quotidiano nazionale che raggiungesse e magari superasse Il Corriere della Sera era il nostro sogno. Sia Carlo che io abbiamo separatamente raccontato come cominciò quell'avventura, come si sviluppò e come raggiunse l'obiettivo che ci eravamo prefissato, sicché non sto a ripercorrerlo. Debbo dire però che, pur nella diversità dei compiti e delle responsabilità che ciascuno di noi due assunse in tutta la vicenda editoriale e giornalistica di quello che ora è il "Gruppo Espresso-Repubblica", io non avrei potuto intraprendere nulla senza di lui e reciprocamente lui senza di me. Ho già detto che eravamo diversi ma interamente complementari. In certe questioni e in certi momenti lui spingeva e io frenavo, in altre situazioni accadeva il contrario. Ma non è mai avvenuto in mezzo secolo di sodalizio che ci fossero tra noi sentimenti di rivalità, gelosie, invidie. Il progetto era comune e comuni gli sforzi e le responsabilità per realizzarlo. Abbiamo rievocato pochi giorni fa la giornata in cui firmammo l'atto costitutivo della società editrice di Repubblica con Giorgio Mondadori e Mario Formenton nostri compagni di viaggio imprenditoriale nella bella villa di Giorgio a Sommacampagna. Quando scegliemmo la linea della fermezza durante i 56 giorni della prigionia di Moro nelle mani delle BR. Quando scoppiò lo scandalo di Tangentopoli affondando la Prima repubblica e con essa la DC, il partito socialista e gli altri minori. Quando Silvio Berlusconi affrontò l'agone politico e cominciò un lungo conflitto tra noi e lui, che dura tuttora: sempre ci trovammo d'accordo e sempre ci prendemmo la comune responsabilità delle scelte. In questa lunghissima vicenda abbiamo avuto compagni che non furono soltanto preziose presenze professionali ma amici veri e leali. Siamo stati fortunati nei nostri incontri. Voglio dirli i nomi di questi amici, sono sicuro che Carlo vorrebbe che siano ricordati anche se alcuni di loro non ci sono più: Franco Alessandrini, Lio Rubini, Bruno Corbi, Gianni Corbi, Cesare Garboli, Livio Zanetti, Carlo De Benedetti, Marco Benedetto, Gigi Melega, Bernardo Valli, Luigi Zanda, Corrado Passera, Milvia Fiorani, Luigi Bianchi, Ezio Mauro, Daniela Hamaui. I redattori dei nostri giornali, delle radio, dei siti "on-line". Le segretarie dell'azienda. Carlo ne conosceva molti, ma conosceva soprattutto lo spirito d'appartenenza del corpo redazionale e sapeva che era quella la principale risorsa d'un gruppo che dalle quattro stanze di via Po 12, dove la nostra piccola storia è cominciata, conta ormai migliaia di persone e di famiglie in tutta Italia. *** Carlo ha avuto molti amori e qualche figlio qua e là per il mondo. Infedele in questi suoi privati rapporti, quanto fu invece fedele nei rapporti professionali e fermo nelle convinzioni politiche. Legato tuttavia da profondi affetti familiari. Per la sorella Marella e il fratello Nicola e per Ettore. Per la figlia Jacaranda. Per il nipote Filippo. Per Violante Visconti, sua compagna per trent'anni e sua moglie fino alla morte avvenuta qualche anno fa. Ebbe anche molti amici al di fuori dell'azienda: Carlo di Robilant, Piero Saint Just, Nicolò Pignatelli, Emanuele De Seta. Ma il racconto della sua vita sarebbe incompleto se omettesse il rapporto che ha avuto con Gianni Agnelli e con i figli e nipoti di Gianni e Marella ai quali è stato legato non solo da vincoli di sangue ma da profonda e quasi paterna amicizia. Con Gianni c'è stata amicizia di avventure, comune passione per il rischio e una sottile competizione e rivalità. Per molti aspetti si somigliavano: l'eleganza, l'amore per la gara, l'amore per le donne, gli affetti familiari, l'azienda come luogo di appartenenza e progetto di futuro. Infine la bellezza fisica che ambedue avevano. Gianni però è stato perseguitato da una sorta di noia esistenziale che Carlo non ha invece mai conosciuto. La vita l'ha sempre divertito e in questo fu assai diverso dal cognato. Ci fu tra i due un'altra intima assonanza: Carlo si sentiva principe, Gianni si sentiva re. Tutti e due ebbero una loro piccola corte di scioperati, di bizzarri, di buffoni, che è stata per loro una protesi della nobiltà di sangue. *** Negli ultimi anni i nostri incontri si erano diradati, le nostre telefonate da pluri-quotidiane avvenivano ormai con cadenza settimanale e alle volte anche più lunga. Ma quando un fatto privato o aziendale o pubblico di rilievo accadeva, ci trovavamo simultaneamente con il telefono in mano per mettere in comune pensieri, giudizi e sentimenti. Così è sempre stato, ma ora per me non sarà più e questo è il mio lamento. Perché tu - come canta il poeta nel lamento su Ignacio Sánchez - sei morto per sempre. Questa canzone gli piaceva e più volte l'abbiamo citata tra noi, forse abbiamo pensato, ma senza confessarcelo, che uno di noi due avrebbe dovuto scrivere il suo lamento sull'altro, ma non sapevamo a chi sarebbe toccato. "Canto la sua eleganza con parole che gemono/ e ricordo una brezza triste negli ulivi".
(16 dicembre 2008) da Repubblica

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