martedì 16 dicembre 2008

Per chi beve e poi guida

"Liberi di uccidere senza pagare mai"
"Mi ha tolto il marito, è tranquillo a casa"
PATRIZIO ROMANO
TORINO Vite distrutte. Per i familiari di Daniele Borleri, il tempo si è fermato alle 21,20 di sabato 21 giugno. Daniele, 39 anni, è stato travolto dall'auto guidata da Vasile Juravle, autista di pullman romeno di 56 anni. L'uomo aveva nel sangue un tasso alcolico doppio a quello consentito. Insomma, era ubriaco. Tanto da non vedere lo stop all'incrocio per Valdellatorre, pochi chilometri da Torino, e non accorgersi di quella moto che arrivava sul rettilineo e da centrarla in pieno. Daniele è rimasto lì, sull’asfalto dove oggi c'è una lapide fatta dalla moglie e dal fratello. Per non dimenticare.«Perché lì c'è il suo ultimo sospiro - dice tra le lacrime la moglie Eleonora Fucarino, 42 anni -, perché lì sono rimasti i suoi ultimi pensieri». E ogni morte è una nuova sofferenza. «Mi creda - confida il fratello Marco - ho spento la televisione quando c'era il servizio di quel ragazzo che a Cesano Maderno ha investito tutta quella gente. Nessuno si chiede che cosa pensavano quanti sono rimasti uccisi o feriti, alla partenza per una gita. E che cosa penseranno, per il resto della vita, i parenti e amici, chi come noi resta qui a piangere». Perché loro sono morti dentro.«Vivo nel ricordo di Daniele - ammette Eleonora -. Sono tornata nella nostra casa e curo i suoi cani, Schila e Nossyblack. Al lavoro non riuscivo a stare tra la gente, piangevo per un nulla. E mi hanno licenziata». Ora passa i giorni tra ricordi e dolore. «Mia madre Luciana e mio papà Natale non si sono ripresi - racconta Marco -, mia madre ha collassi e mio padre ha problemi al cuore». E sapere che il processo per omicidio colposo potrebbe risolversi in un patteggiamento senza una vera condanna li lascia con l'amaro in bocca.«Quello che chiediamo non è vendetta - sostiene il fratello -, ma giustizia, che lo Stato dica a quel signore "hai sbagliato e ora assumiti la responsabilità e paga"». Nessun rancore, ma neanche perdono. «Se avesse voluto avrebbe potuto scriverci, farci avere dei fiori - dice -. Forse li avremmo buttati via, ma sarebbe stato un gesto». Invece, solo silenzio. «Al processo dovrò vederlo in faccia - afferma la moglie -, non so come reagirò. Dice di soffrire? Ma che cosa ne sa. Lui mi ha tolto Daniele, mi ha tolto la ragione di vivere».E questo stillicidio di morti per ubriachi al volante li strazia. «E' una catena senza fine - ribadisce il papà Natale -, tanto qui nessuno gli fa niente. Che cosa provo? Non posso dirlo, sarei maleducato. Posso solo dirle che questo Natale lo passeremo al cimitero, vicino al nostro Daniele. Per parlargli, stare assieme. Quel signore, invece, sarà a casa con i suoi e chissà se penserà a noi, a questo Natale senza gioia, a questo padre senza un figlio». Non piange, ma la voce si incrina. «E’ dura - confessa -, da mesi andiamo da uno psicoterapeuta per superare questo dramma».Murati nel ricordo. «E' troppo grande il dolore - ripete Marco -. Ed è dura vedere che ne succedono ogni giorno: si mettono al volante ubriachi e diventano proiettili vaganti». Senza rabbia, senza più voglia di farsi giustizia. «Pensi che il dolore sia quello dei primi giorni - sospira la moglie -, invece quello vero arriva dopo. Quando torni a casa e sei sola, quando lo vedi in ogni cosa che era vostra, quando lo sogni e gli parli. Quando ti svegli e non c'è più nulla. Quando il Natale non sarà fatto di alberi e di regali, ma di pianto e ricordi». da La Stampa

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