mercoledì 21 gennaio 2009

Il giovane Presidente

Kay/KlimtIl presidente ragazzo
BARBARA SPINELLI L’apparizione di Obama, non solo nel paesaggio americano ma nel mondo, conferma qualcosa che ciascuno di noi sa: basta una persona forte, e il paesaggio d’un tratto può cambiare. Una personalità che crede intensamente nel bene comune senza vacillare né badare a interessi particolari può rimettere in moto quel che pareva immobile, nella società e ai suoi comandi. Può ridar senso alla parola, quando sembrava che essa l’avesse perso e che il ritiro nel silenzio fosse la scelta meno indecorosa. Obama ha messo fine a questa stagnazione. Ha vinto proponendo la speranza, che sorge inaspettata proprio quando la passione ottimistica si spegne e - così ha detto il nuovo Presidente alla cerimonia d’insediamento, ieri - l’inverno è profondo. Forse il momento Obama è qui: nella parola da lui ritrovata. Ma non è solo questo. Perché una grande personalità si imponga, perché vinca tanti ostacoli, occorre che il momento stesso, indipendentemente dalla persona, abbia una sua intensità irresistibile. Occorre il tifone più letale, perché nasca un grande capitano che porti in salvo il bastimento: senza tifone il capitano MacWhirr di Joseph Conrad sarebbe restato nel grigiore, pur essendo portato al comando. Il profondo inverno rivela l’eccellenza dello statista e al tempo stesso lo fa nascere.Dicono che Obama pensava da tempo a candidarsi, ma che non riteneva giunta l’ora. Se ha forzato i tempi è perché ha fiutato che questo non era forse il suo momento ma di sicuro era il momento più grave della storia recente americana: e che da tale momento lui era chiamato, quale che fosse la sua maturità personale. Nella sua autobiografia, egli ricorda i libri che l’hanno marcato, da Shakespeare a Moby Dick a Conrad: specialmente Cuore di Tenebra, «che mi ha insegnato quel che spaventava i bianchi nei neri, e come nasce l’odio». Scrive Michiko Kakutani, critico letterario del New York Times, che Obama, per i libri che l’ispirano, ha un senso tragico della storia e delle ambiguità umane, ed è refrattario all’incoscienza ottimista delle ultime amministrazioni.Quel che è accaduto nel 2008 conferma l’inverno descritto da Obama. Il tracollo finanziario testimonia di una fragilità americana che molte amministrazioni hanno ignorato: dell’assenza di un «occhio vigile» sugli spiriti animali del mercato. Le guerre che continuano in Medio Oriente certificano che Washington ha fallito, in quella che riteneva essere la sua funzione: egemonizzare il mondo e rifarlo da capo, spegnendo chi fomenta conflitti. Bush e i neo-conservatori avevano nutrito questo susseguirsi di bolle: l’illusione che gli Stati Uniti fossero gli unici a poter capire e aggiustare le storture dell’umanità. L’arroganza di tale illusione, unita a ignoranza e a una mancanza di curiosità abissale, a cominciare dal clima e dal rapporto con l’Islam. Non a caso, elencando antiche virtù dell’America, Obama ha citato ieri quella che tanto le è mancata: la curiosità. Questo è il grande freddo che il Presidente ha di fronte: non gli incidenti di un impero paragonabile all’antica Roma, ma le rovine di una folie de grandeur che da tempo non fa i conti con la realtà.Il senso tragico della storia, se davvero anima Obama, lo aiuterà enormemente. Poiché si tratta di andare sino in fondo, nell’esplorare la notte. Le guerre contro il terrore non portano frutti, né in Iraq né in Afghanistan. In Asia urge più della guerra un negoziato vasto fra Pakistan, Afghanistan, India, aggiungendo Iran, Cina, Russia. È stato quantomeno azzardato far credere a piccoli nazionalismi (Georgia, Ucraina, Israele) che potevano tutto, perché alle spalle avevano il gigante Usa. Sapere che la storia è tragica non vuol dire vederla nera, senza vie d’uscita. L’acme della tragedia non consiste nella nemesi punitiva ma nella catarsi, capace di purificare l’uomo che apprende la propria colpa e i propri limiti. Per l’America è qui il compito: smettere la forza irresponsabile, aprire (dice Obama) una «nuova era di responsabilità». Da secoli essa vorrebbe essere il faro sopra la collina: un sogno condiviso dal Presidente afro-americano. Ma anche la sfiducia verso gli Usa nel frattempo s’è fatta globale. Anche in questo «il mondo è cambiato e urge cambiare con lui». L’America è a un bivio. La sua idea di sovranità nazionale assoluta, che non riconosce autorità sopra di sé, si è rivelata fallace, minacciosa. Non è detto che Obama sia all’altezza di un così enorme momento storico: il momento in cui l’America, se cosciente, scopre il post-nazionalismo europeo; in cui riconosce che il multipolarismo non è un malvagio disegno cinese, russo o europeo, essendo ormai la realtà. Ma di certo il momento gli consente di guardare alto e lontano. È la sua occasione. È il Tifone terribile che può travolgerlo, o innalzarlo e renderlo grande. La Stampa

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