mercoledì 21 gennaio 2009

Qui Capitol Hill

Lady Frances Gresley/De LaszloLacrime, sciamani e dubbi «Così si esorcizza la paura»
Tutti in fila per assistere al giuramento. Rito contro gli «spiriti»
WASHINGTON — (Il senso di questa giornata lo capiremo più in là. Ora non si sa se cambierà la storia, e poi quanto. Però una simile euforia umano- politica collettiva non si era mai vista, nella storia che conosciamo. Non si erano neanche mai visti milioni di persone contemporaneamente, programmaticamente gentili gli uni con gli altri. Che cercano disperatamente di sperare. Comunque, ecco qui).
Il prologo «La guerra in Iraq!». «Hey Hey, goodbye ». «Le porcherie di Wall Street!». «Hey Hey, goodbye». «La vostra depressione, le vostre paure, la vostra angoscia! Scuotetele via!». «Hey, Hey, goodbye». L’evento della vigilia che meglio esprime lo stato d’animo generale, e pure quello che fa più ridere, è il rito new age-sciamanico per cacciare gli spiriti maligni dalla Casa Bianca. L’ha organizzato la comica Kate Clinton, che officia insieme a una cantante nera e a una maga di Brooklyn. Un migliaio di persone nel giardino di Dupont Circle urla hey hey goodbye a tutti i mali personalpolitici, se li scrolla via saltellando, si rilassa. Anche perché per cacciare gli spiriti, oltre a bruciare varie erbe, molti agitano canne modello baobab; così semplicemente respirando si è diciamo tutti più allegri. Sembra — è — un episodio di nicchia. Ma mostra che aria tira tra la gente venuta a Washington molto più dei balli da ricchi o delle presenze Vip. «Sono qui perché ne ho sentito parlare in tv», dice Amy DeWine, avvocato di Saint Louis, che tutti guardano male perché è in pelliccia. «Ma è fantastico, ho gridato come una scema e mi sento rinata». «Pure io», dice il suo atletico e sconosciuto vicino con un triangolo rosa appiccicato alla giacca a vento, «quando Kate Clinton ha detto che sono stati tempi di “destra militante e sinistra in trincea” ho urlato hey hey goodbye e ho sentito che era la fine di otto anni da incubo ».
Interno borghese Nelle ville e villette del Northwest Washington, dove i festeggiamenti prendono la forma di cene sedute, la gente è più competente e più cauta. A Spring Valley, dirigenti della World Bank e i loro amici discutono: se Barack Obama riuscirà a far qualcosa; o se—tutti dicono è «molto possibile» — sarà un «empty suit», un vestito vuoto, molta immagine zero sostanza, non ce la farà a riformare l’economia, a far processare Bush e Cheney, ecc. Ma finito il dolcino al limone gli ospiti fremono. «Eehm, scusate se noi andiamo, vorremmo alzarci alle cinque per prendere un buon posto in tribuna», fa sapere Dean, giudice californiano, qui col figlio studente Brad. Gli altri: «In effetti anche noi andiamo presto coi ragazzi…». Fine della serata, sveglia dopo poche ore.
Il Mall Alle sette è già pieno. Ai varchi (ex varchi) tra il Campidoglio e la Casa Bianca ci sono file inutili di un chilometro. Dopo un po’ la gente decide che—parole di Megan Schultz, bionda pragmatica di Chicago—«the Obama Crowd, la folla di Obama, siamo noi. Sul Mall sono trecentomila, qui saremo due milioni»; e va con le amiche a scongelarsi in un caffè. L’Obama Crowd è ovunque ed è uniformemente «nice», carino e gentile; pare un film-presa in giro con Jim Carrey ma è vero. Ci si abbraccia in coda, ci si presenta nelle file per le bevande calde, si lasciano dollari ai volontari della Free Methodist Church che danno caffè gratis e hanno messo un megaschermo sopra l’altare per far vedere l’Inaugurazione ai senzacasa, al caldo. L’autorappresentazione di massa dell’altra America possibile prosegue senza intoppi. Tutti la fotografano e la filmano. Un gruppetto più nice degli altri gira fotografando tutti e dando biglietti da visita, così i soggetti potranno rivedersi su un sito web. A un certo punto il Casino Nice è totale ma fluido. «Oggi siamo parte della storia» e però bisogna trovare un megaschermo.
La dolce vittoria nel fast food I migliori sono al caldo, tra i trecento tavoli nel salone con fast food di ogni tipo diventato auditorium nel National Press Building. Le centinaia di rifugiati si congratulano tra loro per non essere riusciti a entrare nel Mall, «qui si sta benissimo e c’è pure il sushi», dice una di San Francisco. Lara Mitchell, afroamericana di Detroit, si presenta ai vicini, si siede e comincia a piangere preventivamente. Sugli schermi appaiono gli ex presidenti. W. Bush e Dick Cheney vengono insultati ma neanche troppo. Quando arriva Michelle solo qualche elitista bianca e liberal azzarda che vestiva meglio prima. Quando arriva Obama tutti si alzano e si abbracciano tipo gol da campionato. Quando la senatrice Dianne Feinstein parla di «sweet victory» si decide che sì, ha trovato le parole giuste, almeno per la giornata. Quando il pastore omofobico Rick Warren fa l’invocazione una buona metà prega sul serio. Quando canta Aretha Franklin un ragazzino si stupisce, «ma davvero è ancora viva? ». Quando Joe Biden giura comincia a calare un silenzio sacrale; irreale tra la puzza di fritto. Quando Obama giura e poi parla si assume collettivamente un’aria da «quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare». Lara smette di piangere. «Ora mi sento sollevata, anche se sono disoccupata ». Il candidato terapeutico è diventato un presidente abbastanza normale, intanto. Non si sa cosa farà da oggi; però a molti è cambiato l’umore. Magari per un po’ dura, hey hey goodbye.
Maria Laura Rodotà 21 gennaio 2009 Corriere della Sera

Nessun commento: