venerdì 30 gennaio 2009

Sfuggiti alla giustizia

Menzel L'esercito degli anni di piombo è sparso in vari paesi, nascosto ma non troppo Ecco perché L'Italia non chiude la partita e perché non ce li consegnano
Il catalogo dei latitanti irriducibili Quei 76 terroristi in giro per il mondo
di CARLO BONINI
Perché non li consegnano? Il conto con una Storia di piombo che non ha conosciuto alcuna forma di riconciliazione, che tra il 1969 e il 2003 ha fatto 170 morti per mano rossa e nera, è oggi ridotto al profilo sbiadito di settantasei, tra uomini e donne, che gli archivi di polizia e le banche dati del ministero di Giustizia indicano ancora latitanti perché inseguiti da condanne definitive e mai eseguite. Un drappello di ombre, fissate in ingiallite foto segnaletiche, che rende quel passato eterno e, ciclicamente, torna ad allargarne le ferite mai cicatrizzate. E che tuttavia vive ormai per buona parte alla luce del sole. Perché di almeno uno su due di questi uomini e di queste donne si conoscono indirizzo, numero di telefono, professione. Perché i luoghi della loro latitanza - come mostra la mappa pubblicata in queste pagine sulla base dei dati noti agli uffici antiterrorismo delle nostre forze di polizia - hanno smesso da tempo di essere un segreto, in una dimensione e un dibattito pubblici che hanno trasformato la loro condizione di fuggiaschi in quella di "rifugiati" o "riparati", con un'accezione lessicale che svela il cuore dell'argomento politico che oggi ne protegge la libertà. E che dimostra come il caso di Cesare Battisti non sia in fondo un'eccezione o un cortocircuito diplomatico. Perché se è vero che la caccia alle ombre non è mai finita, è altrettanto vero che, negli anni, il suo esito ne è stato segnato. Tra il 2002 e oggi, tre dei nove latitanti individuati e catturati all'estero dall'Ucigos della polizia di Stato e dai carabinieri del Ros, sono tornati in libertà perché la loro estradizione è stata negata. Consegnando alla cronaca storie che si somigliano come gocce d'acqua. Leonardo Bertulazzi (ex br della colonna genovese "28 marzo", una condanna a 27 anni per attentato e per il sequestro di persona dell'armatore Pietro Costa) viene fermato alla frontiera tra Argentina e Salvador il 3 novembre del 2002. Dopo una latitanza durata 22 anni, rimane in una cella del carcere di Buenos Aires pochi giorni, il tempo di dichiararlo "non estradabile perché condannato in contumacia".
Germano Fontana, ex Prima Linea, quindi padre con Cesare Battisti dei "Proletari armati per il comunismo", arrestato nell'aprile del 2004 in Spagna dopo venticinque anni di ricerche, torna in libertà perché gli otto anni e due mesi della condanna per banda armata e associazione sovversiva che deve ancora scontare sono prescritti. Cesare Battisti, nel 2007, viene catturato in Brasile, dove vive con falso nome dopo essere fuggito da Parigi la notte in cui la magistratura francese si prepara ad estradarlo. E anche per lui, come racconta la cronaca di questi giorni, l'esito è noto. Dunque e di nuovo: perché non li consegnano? Eugenio Selvaggi, oggi sostituto procuratore generale in Corte di Cassazione, ha diretto nella seconda metà degli anni '90 l'ufficio estradizione del ministero di giustizia e ha quindi presieduto il Comitato per la cooperazione giudiziaria in Europa. Alla domanda allarga le braccia, sciogliendosi in un sorriso amaro. "Per stare alla sola Europa - dice - dove pure esiste ormai uno spazio di cooperazione giuridica comune e il processo di consegna dei ricercati è ormai governato da un rapporto esclusivo tra le autorità giudiziarie, il pezzo di Storia di cui stiamo parlando, e dunque i condannati chiamati a rispondere di reati commessi tra l'inizio degli anni settanta e la fine degli anni '80, è in buona parte sottratto alla nuova disciplina del mandato di arresto europeo. Basti pensare che la Francia, il Paese dove continua a risiedere il maggior numero dei nostri latitanti, applica le nuove norme del mandato soltanto per i reati commessi dopo il 1993. Il risultato è che la consegna dei latitanti per quei fatti lontani segue ancora le regole dei trattati di estradizione e dunque resta un atto di segno fortemente politico.
Senza contare che politico è di fatto anche il tratto attribuito alla maggior parte dei reati commessi da chi ancora è all'estero. E va da sé che quando due Stati affrontano la discussione sulla natura politica o meno di un reato, difficilmente trovano un punto di accordo". Un alto dirigente del ministero di giustizia conferma e rafforza l'analisi di Selvaggi. Dice: "Con i responsabili dei reati dei nostri anni di piombo, abbiamo vinto nel tempo la nostra partita giudiziaria. Ma abbiamo drammaticamente perso quella politica. Fuori dall'Europa, a cominciare dai Paesi di Centro e Sudamerica, per non dire di quelli di common law, tribunali e governi continuano a modellare le loro decisioni sulle posizioni francesi. Come dimostra il caso Battisti". La Francia, dunque, e la sua dottrina come collante primo e ultimo del diaframma che sottrae le ombre della nostra stagione di piombo al loro destino processuale. Battezzata da Mitterrand come no inderogabile alla consegna di ricercati o condannati per reati di natura politica ed ammorbidita nel tempo (con l'assenso all'estradizione di quanti, sia pure per ragioni politiche, si fossero macchiati di reati di sangue), la posizione di Parigi può oggi riassumersi nel termine con cui viene familiarmente indicata dagli addetti ai lavori. "Purgazione della contumacia". E' il principio che da oltre un secolo prevede che un cittadino francese, condannato in sua assenza ("contumace") abbia diritto, una volta arrestato, all'annullamento del verdetto di colpevolezza e a un nuovo processo. E' un principio che ha un suo reciproco nei Paesi di common law (dove il contumace non può essere processato e il suo dibattimento si congela, insieme alla prescrizione dei reati, fino a quando non compare, volontariamente o perché arrestato). Che ha governato per anni la giurisprudenza della Corte di Strasburgo e che è stato peraltro assunto nella stessa disciplina del mandato di arresto europeo (secondo la quale, la consegna del latitante condannato in contumacia da un Paese all'altro dell'Unione è possibile solo se esiste la garanzia di un nuovo processo). E' soprattutto un principio che per oltre mezzo secolo è rimasto sconosciuto al nostro codice e a cui, faticosamente e parzialmente, il nostro Parlamento si è adeguato solo nel 2005, riconoscendo al contumace la possibilità di impugnare a determinate condizioni la sua sentenza di condanna definitiva. E' il principio a cui Cesare Battisti si è appellato a Parigi prima, a Brasilia poi, facendo leva sulla presunta irregolarità dei processi che lo avevano visto condannato in contumacia in Italia. Lo stesso cui il fitto drappello di latitanti dentro e fuori i confini francesi continua a fare ricorso. Che vivano in Nicaragua, o in Argentina, o in altri angoli di mondo, poco importa. Certo, c'è stato un tempo (gli anni '90) in cui l'argomento opposto dal nostro Paese - e cioè che essersi sottratti al proprio processo sia stata per molti latitanti una scelta consapevole per fuggire la giustizia e non possa dunque essere oggi invocata come una lesione dei propri diritti - è sembrato fare breccia. Proprio a Parigi. Nel marzo '89, la Chambre d'Accusation esprimeva parere favorevole all'estradizione di Giovanni Alimonti (ex br), sia pure in relazione solo ad alcuni dei reati di cui era accusato. Nel marzo dell'anno successivo, identica decisione veniva presa con Enzo Calvitti (br). Nel gennaio del 1995, con Roberta Cappelli (br), Maurizio Di Marzio (br) ed Enrico Villimburgo (br). Ma, a distanza di 14 anni, non uno dei decreti ministeriali necessari a dare corso a quelle decisioni è stato firmato. L'ultima consegna al nostro Paese di un latitante riparato a Parigi data ormai sette anni. Era il 2002 e, con assoluta sorpresa delle nostre autorità, visti i precedenti, Paolo Persichetti, ex brigatista rosso, condannato a 22 anni e 6 mesi per l'omicidio del generale dell'Aeronautica militare Licio Giorgieri (1987), attraversava in manette la frontiera con la Francia diretto al carcere di Viterbo. Un percorso che non avrebbero condiviso né Marina Petrella (ex colonna romana delle Br, condannata con sentenza definitiva per il sequestro e l'omicidio di Moro e il cui no all'estradizione per ragioni di salute è stato ufficialmente ribadito nell'ottobre scorso da Nicolas Sarkozy), né, appunto, Cesare Battisti. Anche lui, a meno di improvvisi capovolgimenti, non tornerà. Il Brasile sarà la sua nuova casa. Come, da trent'anni, lo è per Achille Lollo. Arse vivi i fratelli Mattei a Primavalle il 16 aprile 1973. E' un "rifugiato politico".
(30 gennaio 2009) Repubblica

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