giovedì 8 gennaio 2009

Vita tribolata

Elizabeth/Perry8/1/2009 (7:28) - EMERGENZA UMANITARIA
Hamas non ha nessuna pietà del suo popolo
I leader si nascondono nei bunker, la gente muore
AVRAHAM B. YEHOSHUA
La vigilia del nuovo anno, io e la mia famiglia abbiamo ritenuto opportuno mostrare solidarietà ai civili israeliani costretti nei rifugi del Sud e, anziché festeggiare, siamo rimasti a casa a guardare la televisione. Ci siamo sintonizzati sul canale televisivo ARTE che trasmetteva un balletto con la coreografia di Béjart eseguito dal corpo di ballo dell’Opéra di Parigi. Non riuscivamo però a dimenticare la guerra e, premendo un pulsante, passavamo da L’uccello di fuoco di Stravinskij ai devastanti uccelli di fuoco in volo tra Khan Younis e Sderot, tra Gaza e Beer Sheva; dal ritmo incalzante, insistente e straordinario del Bolero di Ravel a quello tragico, ripetitivo, infinito del conflitto israelo-palestinese. Solo due anni e mezzo fa noi, residenti del Nord, eravamo rintanati nei rifugi per difenderci dai razzi di Hezbollah e ora sono i civili del Sud a trovarsi nella stessa situazione. Le armi cambiano e si fanno più sofisticate, i mezzi di comunicazione migliorano e il mondo è sempre più globalizzato ma nella nostra regione il conflitto rimane immutato. La caparbietà, l’idiozia, l’integralismo, l’ipocrisia, l’odio, la disperazione e l’utopia sono prerogativa di entrambi i fronti. Sì, entrambi i fronti! Non c’è quindi da meravigliarsi se cercammo rifugio dalle immagini della tv israeliana nella meravigliosa danza di Maurice Béjart che concludeva il reboante Bolero in un formidabile crescendo. Anche il conflitto israelo-palestinese, che prosegue da più di 130 anni, si concluderà in un formidabile crescendo? Sarà una catastrofe o una positiva catarsi di rappacificazione e accettazione della realtà «dell’altro»? Forse però posso dire ancora qualcosa di nuovo a quei lettori italiani che non ne hanno abbastanza del conflitto mediorientale e sono disposti a leggere l’ennesimo articolo sulla situazione, magari per tentare di capire, nella farragine di analisi e resoconti, da che parte stare, a chi garantire il proprio appoggio morale, chi - in questa fase - è l’aggressore, chi merita pietà e chi solo rabbia e biasimo e se la violenta reazione dell’aggredito sia legittima. Per giudicare equamente le parti occorre avere una visione complessiva dello stato delle cose. I palestinesi di Gaza sono da condannare per il loro supporto delle azioni criminali di Hamas mentre i loro fratelli in Cisgiordania meritano compassione e simpatia per il comportamento aggressivo e iniquo che Israele mantiene ai check-point e nelle colonie. Agli israeliani che attaccano Gaza per distruggere le basi di lancio dei razzi sparati sui civili va piena comprensione ma in Cisgiordania, nel contesto dell’occupazione, quegli stessi israeliani continuano a commettere prepotenze e angherie. L’osservatore esterno dovrebbe dunque adottare un punto di vista meno semplicistico, un criterio di giudizio che, pur mantenendosi fermo ed equilibrato, non sia piatto e unidimensionale. Israele, dopo la guerra dei Sei giorni, ha governato Gaza per 38 anni. Tale periodo di dominio si è rivelato problematico soprattutto a causa degli insediamenti che vi erano stati eretti. Malgrado infatti la presenza di un milione di palestinesi Israele confiscò quasi un quarto del territorio della Striscia per costruire colonie in cui si insediarono solamente 9 mila ebrei. La violenta opposizione degli abitanti di Gaza all’esercito ebraico e ai coloni in quel periodo era dunque giustificata e si è dimostrata efficace. Tale opposizione, che per cinque anni, durante l’Intifada, è costata la vita a una quarantina di soldati e civili israeliani, ha costretto infine Israele al ritiro, allo smantellamento degli insediamenti e alla riconsegna dell’intero territorio di Gaza ai suoi abitanti, o, nella fattispecie, al governo di Hamas democraticamente eletto. Ma i dirigenti di questa organizzazione, inorgogliti ed esaltati dalla sensazione di vittoria, invece di tirare un sospiro di sollievo, riappropriarsi delle terre evacuate dai coloni e dare il via a un accelerato processo di ricostruzione che tutto il mondo avrebbe guardato con favore concedendo ampie e generose sovvenzioni, hanno cominciato a programmare il proseguimento della lotta. Come se il ritiro israeliano non fosse che il primo passo per un definitivo annientamento dello Stato ebraico. Non bisogna infatti dimenticare che l’ideologia integralista di Hamas, condivisa da non pochi palestinesi, non riconosce la legittimità dell’esistenza di Israele, e non importa entro quali confini. Come dopo il ritiro unilaterale israeliano dal Libano meridionale gli esponenti di Hezbollah si erano illusi di poter sgretolare Israele e avevano aperto il fuoco sulle comunità civili del Nord portando morte e distruzione nel proprio Paese, così i palestinesi di Gaza hanno cominciato non solo ad accarezzare il sogno di una liberazione della Palestina ma anche quello di una utopistica grande rivoluzione islamica, ispirata da Iran e Hezbollah. E anziché rifornirsi di materiali edili e di macchinari per l’industria, hanno fatto scorta di razzi - anche a lunga gittata - cominciando a martellare i centri abitati israeliani del Sud. A tale pioggia di razzi Israele ha risposto chiudendo i valichi con la Striscia e ponendo un embargo sui rifornimenti a quella piccola e isolata regione. E allorché al termine di una tregua di sei mesi gli uomini di Hamas hanno ripreso a sparare contro le comunità civili (arrivando a lanciare fino a 70 razzi al giorno), è scattata l’attuale offensiva militare. Gli europei che osservano questa guerra, pur giustificando la reazione di Israele al lancio dei razzi, si domandano se non sia troppo violenta, «sproporzionata». Israele è uno Stato forte e moderno che dispone di armi letali e sofisticate ma si trova di fronte una popolazione a livello di Terzo Mondo. Sì, i palestinesi di Gaza possiedono razzi, ma i danni che questi provocano sono relativamente limitati. E a riprova di questo è il fatto che le migliaia di razzi lanciati negli ultimi tre anni, dopo il ritiro dalla Striscia, hanno causato la morte di meno di 30 persone mentre l’esercito israeliano, in una sola settimana, ha ucciso centinaia di palestinesi. A questo punto occorre però chiarire una cosa fondamentale. È vero, la potenza di fuoco israeliana è decine di volte superiore a quella palestinese ma la capacità di sopportazione e di resistenza dei palestinesi è infinitamente superiore a quella degli israeliani. Se Israele avesse reagito in modo «proporzionato», rispondendo con un razzo per ogni missile caduto sul suo territorio, nessuno a Gaza ne sarebbe rimasto impressionato. I capi di Hamas avrebbero addirittura deriso una simile reazione e continuato a lanciare razzi a loro piacimento. Dopo un settimana di bombardamenti israeliani, che hanno causato enormi disagi alla popolazione e durante i quali sono morti centinaia di palestinesi (per lo più guerriglieri di Hamas ma anche parecchi civili) e sono stati distrutti numerosi edifici, non solo Hamas non mostra segni di resa ma non è nemmeno disposto a negoziare una tregua, a differenza di quanto fecero Egitto e Siria durante le passate guerre. Il governo di Hamas è indifferente alla sua popolazione. I capi e dirigenti si sono dati alla clandestinità o, più precisamente, si sono rintanati nei bunker sotterranei lasciando il popolo in preda alle sorti di un’irrealizzabile avventura fondamentalista. Non c’è da stupirsi che, a eccezione di alcune scontate e automatiche manifestazioni di sostegno, la maggior parte dei palestinesi di Cisgiordania e di Israele, nonché il mondo arabo, osservino con indifferenza ciò che avviene nella Striscia. Che fare allora? Cosa è possibile e giusto sperare? Cosa può fare Israele per uscire dal circolo vizioso della violenza che domina la sua esistenza fin dal primo giorno della sua fondazione? Innanzi tutto evitare per quanto possibile un’offensiva di terra. Israele non ha la forza di sradicare il governo di Hamas e deve fare tutto ciò che è in suo potere per non peggiorare la situazione dei civili. Il tentativo di distruggere fino all’ultimo razzo nascosto nei bunker della Striscia costerebbe la vita a molti palestinesi e a non pochi soldati israeliani. Solo il popolo palestinese potrà sostituire i propri governanti. Israele può aiutare la gente di Gaza a cambiare opinione, a convincersi che occorre riconoscere la realtà dei fatti, abbandonare la via della violenza e concentrarsi sullo sviluppo e sul benessere. Non dimentichiamo che quella gente è nostra vicina, ha una patria in comune con noi che chiama Palestina e che noi chiamiamo terra di Israele e dovrà convivere con noi nel bene e nel male. Dobbiamo dunque fare il possibile per non inasprire e rendere ancora più sanguinoso il conflitto. Un simile peggioramento si imprimerebbe nella memoria collettiva rinfocolando sentimenti di amarezza e di vendetta. Anche i più estremisti tra i palestinesi non sono creature metafisiche, come non lo sono gli ebrei. Sono esseri umani soggetti a cambiamenti e persino un’organizzazione quale l’Olp, che in passato non era disposta a riconoscere in nessun modo la legittimità di Israele e aveva optato per la via del terrore, da anni mantiene un dialogo con lo Stato ebraico. Ma un auspicabile cambiamento a Gaza, dopo l’avvento di una tregua, non dipenderà solo da quest’ultima e dall’apertura dei valichi di frontiera ma soprattutto da ciò che Israele farà in Cisgiordania. È laggiù che la politica degli insediamenti, da sempre uno dei maggiori ostacoli alla pace, dovrà subire un radicale cambiamento. Ridurre il numero delle colonie e smantellare subito tutti gli avamposti illegali significherebbe eliminare barriere divisorie e posti di blocco e agevolare la vita dei cittadini. Ogni modifica della politica israeliana in Cisgiordania a favore di una più rapida creazione dello Stato palestinese darà agli abitanti di Gaza, stremati e in lutto dopo i recenti avvenimenti, la speranza e la determinazione di voltare le spalle alla politica di Hamas che li ha condotti nel baratro. Traduzione di A. Shomroni (l’articolo è stato scritto per La Stampa e Le Nouvel Observateur) La Stampa

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