venerdì 27 febbraio 2009

Il commento di Scalfari

Stuck SPETTACOLI & CULTURA
Una risposta alla provocazione di Baricco: lo Stato non può imporre una propria linea. ma non può neanche essere privo di un pensiero
L'Ulisse di Dante e i soldi alla cultura
di EUGENIO SCALFARI
Come sempre sa fare quando prende in mano la penna e si inoltra in un discorso pubblico Alessandro Baricco comincia da lontano, usa la logica, ragiona sulle premesse pianamente, non è mai provocatorio ma didascalico. Pone questioni, sollecita risposte che sono già contenute nelle domande. A che cosa serve la cultura? E spiega: serve a migliorare l'anima delle persone, a farle riflettere, a renderle più tolleranti verso i diversi da sé, quindi a scoprire il valore della democrazia e della solidarietà, a ricacciare indietro le pulsioni della violenza. Perciò la democrazia, cioè lo Stato democratico, ha un interesse primario a promuovere la cultura, ad allargarne le radici e le fronde. E poiché il nostro mondo è in preda a un rigurgito di violenza e d'intolleranza, lo Stato democratico è chiamato a intraprendere una necessaria alfabetizzazione incoraggiando la nascita di quella che lui chiama una "intelligenza di massa". Chi non è d'accordo con questo "incipit"? Io lo sono completamente. Ma qui terminano le premesse e qui comincia la sua provocazione: per realizzare in un tempo ragionevole i due obiettivi dell'intelligenza di massa e dell'alfabetizzazione occorre concentrare le scarse risorse disponibili sulla scuola e sulla televisione. E qui il mio accordo con lui comincia a vacillare. La scuola è un grande servizio pubblico cui lo Stato deve provvedere prioritariamente con il proprio bilancio e la scuola privata con risorse proprie nell'ambito di standard di qualità che includono il principio della libertà d'insegnamento. Gli stanziamenti di denaro pubblico destinati alla cultura non riguardano la scuola come non riguardano la giustizia, l'ordine pubblico, la difesa del territorio nazionale, i grandi servizi definiti "indivisibili". A essi si provvede con le imposte che prelevano una quota del reddito dei contribuenti accertato con i vari strumenti a disposizione dell'amministrazione.
Quanto alla televisione, quella di proprietà di gruppi privati si configura come un'impresa con i relativi rischi. Quella di proprietà pubblica viene finanziata con un canone proprio per promuovere gli aspetti culturali a fianco di quelli dell'intrattenimento cui è destinata la pubblicità commerciale. Forse sarebbe opportuno riservare il canone a una sola rete della Tv pubblica, privatizzando le altre o affrancandole dagli obblighi che il pubblico servizio comporta, ma una discussione in proposta esula dall'oggetto di questo articolo e quindi l'accantono. Incoraggiare gli aspetti culturali dei programmi delle Tv private non mi sembra un'idea praticabile. L'imprenditore televisivo ha un suo interesse ad accreditare le proprie emittenti anche dando spazio alla cultura. Poiché si tratta di imprese di lucro solo all'imprenditore spetta decidere la combinazione ottimale dei vari fattori produttivi. Allo Stato spetta soltanto di fissare regole standard per chi utilizza un bene pubblico come l'etere. Altro non deve e non può fare. * * * Poiché le risorse da destinare alla cultura sono scarse - prosegue Baricco - si tratta di formulare una scala di priorità. Chi la deve formulare? Baricco esprime a questo punto una sua personale classifica di priorità avvertendo però correttamente che si tratta di scelte soggettive che hanno semplicemente un valore esemplificativo. Vediamola comunque questa classifica. Via il teatro di prosa il cui pubblico è limitato a una élite di anziani che prediligono repertori ripetitivi e non più formativi, disertati dai giovani. E via, per le stesse considerazioni, i teatri di opera lirica e di musica concertistica. Via soprattutto le esecuzioni di musica contemporanea, incomprensibili poiché non c'è nulla da comprendere. Se lo scopo è la formazione dell'intelligenza di massa è chiaro che essa non può nascere nei teatri di prosa, di opera lirica e di concerti, inevitabilmente finanziati da denaro pubblico. Bisogna dunque abolire quei finanziamenti consentendo ai privati di sperimentare a proprio rischio forme di impresa culturale che si sostengano da sole con un mix di capitali privati e di sostegno pubblico concesso a chiunque intraprenda progetti culturali. Portare il melodramma romantico in teatro, magari miscelandolo con l'operetta di Lehar e di Strauss? Mandare in scena un "musical" tratto dall'Inferno dantesco liberamente rimaneggiato? Usare la Bibbia come canovaccio cinematografico facendo intervenire un Gianni Letta accanto ad Abramo e un Andreotti alla guida di un'arca al posto di Noè? Infine raccontare un Giudizio Universale al modo del Benigni del 1998 e farne un "kolossal" hollywoodiano mettendoci dentro anche Maometto e le Vergini promesse dal Corano ai difensori di Allah? Lo Stato democratico, ci ricorda opportunamente Baricco, non può avere un contenuto etico senza snaturarsi. Quindi non può scegliere tra questi diversi progetti quello che gli piace e quello che gli dispiace. Li deve accettare tutti destinando a tutti il suo aiuto in termini di esenzioni fiscali, facilitazioni immobiliari, libera circolazione nelle sale, accesso alle Tv pubbliche e private. Il mercato guida e intraprende, il denaro pubblico aiuti tutti senza alcuna discriminazione nei limiti delle risorse disponibili. Questo è il nocciolo della provocazione baricchiana. E poi vinca il migliore, la cultura vincerà con lui, l'intelligenza di massa e l'alfabetizzazione culturale faranno decisivi passi avanti. Perfino il Fedone, con opportune contaminazioni, può esser arrangiato come un "reality" con Socrate e Alcibiade in funzione di "Grandi Fratelli". * * * Chi storce il naso di fronte a un sì fatto progetto è a mio avviso un cretino. Chi l'accetta scambiandolo per un'entusiasmante trovata è un poveretto. Forse piacerebbe al ministro Bondi che sta facendo scempio dei Beni culturali, ma questa, caro Alessandro, sarebbe una pessima adesione e sono sicuro che ne convieni. Dal canto mio permettimi qualche osservazione.
1. Non è esatto pensare che i veri acculturati conquistino la tolleranza e l'amore per la democrazia. I capi delle SS, lo Stato maggiore della Wehrmacht e perfino i dirigenti della Gestapo si commuovevano ascoltando la Settima, la Nona e persino i Quartetti di Beethoven, adoravano Mozart e Haydn, assistevano con raccoglimento all'Oro del Reno e al Tristano e Isotta. Poi uscivano da questi bagni dell'anima e andavano a scannare gli ebrei, gli zingari e gli omosessuali. La cultura è uno degli elementi della civilizzazione, ma ce ne vogliono molti altri per umanizzare l'animale uomo.
2. Lo Stato non deve essere etico ma neppure privo di pensiero. Deve tutelare il patrimonio culturale della società che lo esprime. Quindi l'archeologia. La memoria collettiva. I reperti. I repertori. Deve renderli accessibili. Deve favorire la ricerca storica e quella scientifica. Le risorse culturali debbono avere questa oculata destinazione.
3. Alcune istituzioni pubbliche sono necessarie per realizzare questi obiettivi.
4. I privati debbono avere piena libertà di intraprendere facendo della cultura un mezzo per ottenere un lecito profitto. Siano liberi di farlo a proprio rischio così come si costruiscono automobili, reti televisive, telefoni satellitari e mille altre cose e servizi. Ho fatto, caro Alessandro, un'esperienza personale interessante: ho costruito insieme a molti altri amici e colleghi imprese giornalistiche culturalmente impegnate e fonti di larghi profitti. Tu hai vissuto in campi diversi dai miei analoghe e positive esperienze. Dunque si può fare. Lo Stato faccia ciò che deve, i privati facciano ciò che sanno e possono. La società usi questi servizi e si autoeduchi uscendo dall'atonia, dal culto delle icone, dalla condizione di folla "che nome non ha". Noi possiamo soltanto ripetere l'incitamento dell'Ulisse dantesco ai suoi compagni: "Fatti non foste a viver come bruti / ma per seguir virtute e canoscenza". Altro non possiamo fare, ma questo sì, possiamo e dobbiamo. (27 febbraio 2009) Repubblica

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