mercoledì 5 novembre 2008

Biagi, viaggio nel cuore dell’Italia

Giuseppe De Nittis/PioppiMemoria Un anno dopo la scomparsa, escono un volume della figlia e un’antologia di articoli
Sentimenti, immagini e ironia sul filo malinconico dei ricordi
Gli sarebbero piaciuti i posti, i nomi, le facce della gente: era lì che voleva andare, in qualche paese che non fa notizia, in una scuola di provincia, nei comuni dove il medico e il farmacista sono ancora qualcuno, nelle campagne dove adesso vivono tanti stranieri. Gli sarebbero piaciuti i ricordi, l’ironia di qualche racconto, le immagini dolci di un papà che tiene una bambina per mano: ed era lui, timido, impacciato, come nel giardino dell’Osservanza, a Bologna, quando faceva le notti in redazione e la mattina bisognava lasciarlo dormire.
Ma più di tutto gli sarebbe piaciuto scoprire che ha lasciato qualcosa a quest’Italia, qualche sentimento che oggi un po’ ci manca: si chiama fiducia e forse è la certezza che in questo sgangherato Paese dove nulla è stabile fuorché il provvisorio, come diceva Prezzolini, c’è gente migliore di chi a volte la rappresenta, ci sono uomini e donne che non si arrendono e si aggrappano senza arrossire a parole che esprimono valori come coerenza, libertà, coraggio, solidarietà. Enzo Biagi se n’è andato un anno fa, con la sua biro, il bloc notes e il distintivo da partigiano nel taschino della giacca. Fino all’ultimo il suo sogno è stato un viaggio, un’altra traversata nell’Italia, però lontano dal potere, vicino alle lettere dei giornali. «Non la raccontate più» rimproverava noi cronisti. «Bisogna tornare in strada, in provincia, per vedere cosa cambia» ricordava ogni volta nel salotto di casa dove Loris Mazzetti, il regista del Fatto, aveva messo su uno studio speciale, su misura, per girare Rt, il rotocalco televisivo del ritorno in video del grande giornalista, cinque anni dopo l’editto bulgaro di Berlusconi.
E c’era Bice con lui, la figlia più grande, che si preoccupava o forse ci sperava in quel viaggio che Enzo Biagi non ha più fatto, non ha potuto fare. Motivi tecnici, avrebbe detto lui: avanti con la sigla e i titoli di coda. C’è un dolore intimo e privato nell’addio a un padre al quale si è voluto tanto bene: l’ultima notte in clinica è come un cerchio che si chiude. Ma il copione si riscrive di colpo davanti alla camera ardente, il giorno dopo la notizia della morte: una fiumana di gente assedia via Quadronno, Milano non sembra neanche Milano, c’è un popolo diverso in quella strada di case della buona borghesia, c’è l’Italia così com’è, che ringrazia un giornalista per averle fatto compagnia, per essere stato in qualche modo un amico. È lì che Bice Biagi cambia i suoi programmi e decide di farlo lei, quel viaggio tante volte rimandato da suo padre: un viaggio intenso, caldo come un abbraccio, che la porta a incontrare «gente straordinaria e a scoprire posti che prima non sapevo nemmeno dove collocare sulla carta geografica». In viaggio con mio padre (Rizzoli) è il diario pubblico di una vicenda privata, il racconto di un anno nel cuore della gente che di Biagi conosceva molto, ma ha voluto saperne di più. Ed è un itinerario nella memoria di due sorelle che aprono lo scrigno dei ricordi per parlare in pubblico di un personaggio che per loro «è soltanto un papà».
In una biblioteca, in un cinema, una piazza, un teatro, un salone parrocchiale, una scuola di giornalismo, una facoltà universitaria, tra i partigiani di Giustizia e Libertà o in un giardino col suo nome, Bice e Carla Biagi non elaborano il lutto, ma fanno rivivere i comandamenti di un padre che la sera, prima di uno dei suoi viaggi intorno al mondo, raccomandava: «Siate buone, non fate arrabbiare vostra madre». Ma parlano anche del giornalista di carattere che per un’idea pagava con il posto e per la libertà di scrivere non accettava compromessi. Lo testimonia un altro libro edito da Rizzoli, Io c’ero, ghiotta e indispensabile antologia del Biagi giornalista, dal dopoguerra ai nostri giorni, curata da Loris Mazzetti: cronache, incontri, interviste, polemiche nell’arco di quasi settant’anni. Di quel maestro, che gli voleva bene come a un figlio, Mazzetti ricorda che è stato «l’unico che ha saputo essere grande sia sui giornali che in televisione» e lascia un’eredità enorme per chi vuole fare questo mestiere: «Dalla politica bisogna farsi dare del lei». Biagi c’è riuscito: la gente per questo lo apprezza e per questo lo ricorda. In giro per l’Italia, Bice e Carla parlano però anche di un uomo normale, della sua semplicità.
E riescono persino a sorridere, anche quando la commozione è forte. Pensano a lui, a quello che avrebbe detto: raccontate la verità, senza aggettivi. «Dimmi se per caso ho fatto la figura della cretina» sussurra Bice quando finisce un intervento. «Alla nostra età non possiamo fare le orfane» confida Carla alla sorella. C’è una famiglia che si ritrova più unita in questo viaggio, arricchita dall’affetto inaspettato di un’Italia bella, pulita, «dalla gente semplice che crede nei proverbi e negli anniversari». E c’è un posto, Pianaccio, dove si ritrovano certe idealità nei cerchi della memoria. Quanti ricordi: una gita, una breve vacanza, i boschi dell’Appennino dove ci si perde, le piccole gelosie, le tenerezze di una mamma che c’è sempre, la sorellina più piccola tanto amata, i vuoti lasciati da un padre con la valigia. Nel cimitero, sulla collina dove «il vento prima si vede e poi si sente», Enzo Biagi ha una lapide nuova. Tra i fiori c’è ancora qualche biglietto: ci manchi, grazie. «Sembra ieri e si fa fatica a pensare che certi appuntamenti non si ripeteranno più» è il saluto di Bice. «La ricchezza — ha scritto Cesare Pavese — sono i ricordi che uno ha e poi lascia». Questo viaggio è un piccolo album, dentro i ricordi della gente.
Giangiacomo Schiavi 04 novembre 2008 Corriere della Sera

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