mercoledì 5 novembre 2008

Obama, 44° Presidente degli Stati Uniti

Levy DuhrmerIntervista La scrittrice premio Nobel ricorda gli anni della divisione razziale
«Non siamo più balie, cuoche e facchini»
Toni Morrison: «Con Obama il bianco e il nero non contano: reclamiamo uniti la nostra America»
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
NEW YORK - Il premio Nobel Toni Morrison, 78 anni il prossimo 18 febbraio, ricorda ancora l’America razzista e segregata in cui i neri erano obbligati a bere dalle fontane pubbliche «for colored only», stipandosi sul retro degli autobus e vivendo in un universo parallelo e separato che s’intersecava con quello dei bianchi solo in circostanze di totale subordinazione. «Eravamo showmen al soldo dei ricchi bianchi», spiega l’autrice di Sula, Jazz e L’occhio più azzurro (editi in Italia da Frassinelli). «Eravamo balie, cuoche, facchini, mezzadri. E invece oggi alcune delle persone più potenti d’America sono afro-americane: prima di Obama, Colin Powell, Condi Rice, Tiger Woods, e il numero uno di Time Warner, Richard Parson. Chi l’avrebbe mai potuto immaginare? È stata una strada lunga e tortuosa».
Che ricordi ha dell’America razzista e segregata della sua gioventù? «Uno mi è rimasto particolarmente impresso. Avrò avuto 21 anni e mi trovavo con un’amica a Houston, in Texas. Era una tiepida giornata come ce ne sono poche nel Sud e mi sentivo felice e in pace col mondo quando sorpassammo un’auto con un’adorabile bimba bionda di 4, 5 anni seduta sulla cappotta abbassata. Quando aprii il finestrino per guardarla meglio la piccola esclamò "Ciao negraccia". Era una bambinetta ma aveva già imparato quella parola».
Cosa ricorda della sua infanzia in Ohio? «L’Ohio degli attuali tg non è più il mio. Io sono cresciuta nell’area industriale intorno al lago Erie. Un mondo liberal e working class di emigranti cechi, polacchi, italiani e messicani dove l’unico liceo era per tutti. Ho deciso di andare all’università proprio perché volevo stare tra intellettuali afro-americani».
Un’esperienza di integrazione rara per quei tempi. «Allora quella parola non esisteva neppure. Mia madre aveva imparato a cucinare i cavoli dalla donna ucraina che abitava di fronte a casa nostra. Eravamo tutti uniti dalla povertà, avevamo tutti l’orto e la capra nel cortile. I coetanei spesso mi insultavano e un giorno un ragazzo mi chiamò Etiope ma francamente né io né lui sapevamo cosa significasse».
È rimasta stupita dai toni spesso razzisti assunti dalla campagna presidenziale? «È meglio che il bubbone esploda, per far uscire fuori la spazzatura. E comunque tutti i presidenti americani della storia sono stati costretti ad affermare le proprie credenziali di bianchi. Incluso Bill Clinton, obbligato a denunciare la cantante Hip Hop Sister Souljah in quanto razzista anti-bianchi ».
Obama non l’ha dovuto fare. «Lui è diverso. Dopo essere stato allevato, amato e coccolato da una madre e da nonni bianchi non può improvvisamente rinnegarli: quella è la sua storia. Nella sua autobiografia affronta questo tema in maniera molto profonda ed è chiaro che preferisce essere nero, tanto da aver fatto un pellegrinaggio in Kenya sulle orme del padre. Alla fine ha sposato un’afroamericana mentre moltissimi politici neri conservatori di razza mista hanno preferito mogli bianche».
Com’è visto dalla black America il fatto che sia stato allevato da bianchi? «Il problema non è quello: siamo tutti mescolati e in ognuno di noi corre sangue bianco. La vera esitazione dei neri americani riguardava il fatto che Obama non discende da schiavi. E la generazione di attivisti che hanno fatto la galera e sono stati picchiati per le loro idee gli rimproveravano di essere troppo giovane per aver partecipato alla lotta per i diritti civili».
Alla fine però è stato completamente accettato? «Non solo, ha anche dimostrato di essere meglio di noi. I neri hanno sempre votato candidati bianchi ma nessuno aveva mai visto prima d’ora una campagna tanto saggia e visionaria. Obama ha creato la sensazione palpabile che bianco e nero non contano più perché siamo tutti uniti nel reclamare la nostra America. Una grande storia americana».
In che senso? «La mia storia e quella di Obama non sarebbero mai possibili in Francia o in Italia, non perché l’Europa è più razzista dell’America, ma perché è estremamente più protezionista sul mercato del lavoro. In Europa Obama sarebbe ancora in attesa della cittadinanza».
Alessandra Farkas 05 novembre 2008 Corriere della Sera

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