domenica 11 gennaio 2009

L'arte di arrangiarsi

Frau Von Guaita/FeuerbachMAPPE
Se l'Italia perde l'arte di arrangiarsi
di ILVO DIAMANTI
CE LA FAREMO anche stavolta. Gli italiani ne sono certi. Lo testimoniano i sondaggi. Lo rammentano - e lo ripetono - le autorità più autorevoli. Della politica e dello Stato. In ogni occasione. Senza differenze politiche, per una volta. Ce la faremo come abbiamo sempre fatto in passato. Tanto più se e quando ci davano per spacciati. Dopo la guerra, dopo gli anni bui del terrorismo e della crisi. Dopo la fine della prima Repubblica, Tangentopoli e la recessione. Quando nessuno avrebbe scommesso che saremmo entrati nella Ue. E dopo Calciopoli? Abbiamo vinto i mondiali. Per cui ce la faremo anche stavolta. Noi, italiani, maestri dell'arte di arrangiarsi. Considerata il distintivo del nostro "spirito nazionale". Come dimostrano le indagini condotte da LaPolis per liMes negli ultimi quindici anni. L'arte di arrangiarsi. Ammessa da un'ampia quota di popolazione. Senza timidezza e senza vergogna. D'altronde, di che ci dovremmo vergognare? L'arte di arrangiarsi riflette e descrive la nostra capacità di adattamento. Che sconfina nel trasformismo opportunista, che tanto materiale ha fornito alla "commedia all'italiana". Citiamo, per tutti, un film di Pietro Germi degli anni Cinquanta. Intitolato (guarda caso): "L'arte di arrangiarsi". Protagonista un Alberto Sordi inarrivabile, che, per "adeguarsi" ai cambiamenti del paese, diviene, volta a volta: socialista, fascista, comunista e democristiano. Tuttavia, l'"arte di arrangiarsi" non riflette solo i nostri vizi, ma anche alcune importanti virtù. Descrive, in particolare, la capacità innovativa e creativa degli italiani. Non a caso, nelle analisi sul carattere nazionale, è spesso associata all'arte, alla moda, all'imprenditorialità. Ma anche alla cucina, allo stile di vita. Gli italiani, in altri termini, si immaginano un popolo di lavoratori, imprenditori, artisti, artigiani e commercianti. Magari anche furbi e opportunisti. Insofferenti alle regole. Diffidenti verso lo Stato. Capaci, però, di reagire alle difficoltà più difficili su base individuale e, ancor più, familiare e localista.
Visto che l'attaccamento alla famiglia e alla città completa il marchio dell'identità nazionale. La crisi, quindi, non deve spaventare, come sostiene il Presidente del Consiglio, che ha interpretato ed esportato con successo l'arte di arrangiarsi. La maggioranza degli italiani si riconosce in lui - e continua a votarlo - anche per questo. Perché ne impersona, senza timidezza, le virtù e i vizi. Per cui sarà dura, ma "ce la faremo", anche stavolta. Forse. Perché qualcosa, comunque, sta cambiando in noi. Dopo decenni di benessere e di successi, si coglie qualche scricchiolio nella nostra capacità di adattamento. L'"arte di arrangiarsi", nella percezione sociale, continua a ottenere grande considerazione. Tuttavia, una recente indagine condotta da LaPolis-Demos per Intesa Sanpaolo (uscirà su liMes, in un numero dedicato all'Italia: alcune tabelle in www. demos. it) la vede superata dall'attaccamento alla famiglia, fra i caratteri che distinguono gli italiani. Il che suggerisce uno slittamento emotivo dell'opinione pubblica che intacca, in qualche misura, anche il significato dell'"arte di arrangiarsi". Dal polo creativo e innovativo a quello difensivo. Un altro segnale, in tal senso, è la perdita di appeal della spinta imprenditiva. La percentuale di quanti - per sé e per i propri figli - sceglierebbero un "lavoro autonomo", nel Nordest (l'area dove questa domanda è tradizionalmente più estesa) negli ultimi mesi (molto prima della recessione) si è attestata al di sotto del 28%. Sempre tanto e tuttavia 5 punti meno rispetto al 2002 e circa 8 meno del 2000 (Demos per "Il Gazzettino", marzo 2008). Un atteggiamento che si riflette nella realtà. Da un paio d'anni, infatti, la nascita di nuove imprese procede a ritmi molto rallentati. Tende, anzi, ad essere contrastata e talora sovrastata dalla cessazione di numerose attività aziendali. È un sintomo significativo, vista l'importanza dell'impresa in Italia, come mito e modello, oltre che come fattore di reddito e sviluppo. Il problema è che i fili dell'arte di arrangiarsi si stanno, in qualche misura, logorando. Ma, soprattutto, si fatica a intrecciarli. La famiglia e il localismo, come le appartenenze professionali: sono divenuti luoghi di autotutela per interessi concorrenti e irriducibili. Il dinamismo molecolare della società, a cui fanno riferimento le analisi di De Rita e del Censis, oggi produce effetti dissociativi. Accorcia e schiaccia l'orizzonte delle strategie personali. Perché, a differenza del passato, si è perduta l'idea del futuro. D'altronde, è il futuro stesso, come idea, ad essere passato di moda, reso inattuale dal presente infinito. Dalla tendenza irresistibile a guardare indietro, a discutere del passato che non passa mai. Ma è il passato stesso a rendere più difficile guardare e marciare in avanti, in modo infaticabile come prima. Perché la società italiana ha conquistato un benessere largo. Ha appreso i piaceri del vivere bene. È divenuta più pingue. Si è un poco impigrita. È invecchiata. Ha parcheggiato (e nascosto) i giovani in angoli confortevoli, ma periferici. Per cui fatica a coltivare l'arte di arrangiarsi come professione creativa e costruttiva. Non ha più il fisico, la rabbia di un tempo. (Anche se appare perennemente incazzata). Ha smarrito un po' dello spirito animale che le permetteva di reagire e innovare comunque e dovunque. Teme di perdere il benessere ottenuto, dopo averlo conquistato al prezzo di tanta fatica. In più, deve fare i conti con altre società lontane che la globalizzazione ha reso vicine. Demograficamente giovani, economicamente aggressive. Mentre gli "altri" intorno a noi ci inquietano. Non solo perché minacciano la nostra sicurezza, ma perché ci sfidano sul nostro terreno. L'imprenditorialità, ad esempio. Ci sono 230 mila aziende i cui titolari provengono da paesi esterni alla Ue (anche per questo la Lega vuole imporre loro una fideiussione onerosa all'avvio di un'attività economica; sono tanti e fanno concorrenza ai "padani" in casa loro). Quanto alla politica, i cambiamenti nella seconda Repubblica sono talmente rapidi e profondi che il personaggio di Alberto Sordi oggi faticherebbe ad adeguarsi. Più che di trasformismo è tempo di camaleontismo. Per narrarlo ci vorrebbe Woody Allen. Se volesse girare una nuova versione di "Zelig", l'Italia gli fornirebbe uno scenario ideale. (11 gennaio 2009) La Repubblica

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