domenica 11 gennaio 2009

La parola a Scalfari

Lolo/Franz Von LenbachIL COMMENTO
I sacchetti di sabbia non fermano l'oceano
di EUGENIO SCALFARI
UN ANNO fa definimmo la società italiana come uno specchio rotto nel quale era diventato impossibile specchiare un'identità collettiva, una visione unitaria del bene comune e l'esistenza operante d'una classe dirigente degna del nome. Ma da allora, quell'immagine, che ebbe una certa fortuna, non è più appropriata. Lo specchio non è soltanto rotto: è ridotto ad una poltiglia, non riflette nessuna immagine per minuscola che sia. Non riflette neppure i nostri personali egoismi perché sono anch'essi diventati poltiglia. L'egoismo nasce attorno ad un interesse concreto, ad un obiettivo ben determinato da perseguire, da realizzare o da difendere. Ma noi non sappiamo più quale sia quell'interesse che potrebbe darci una felicità sia pure precaria. Oscilliamo come fuscelli al vento, galleggiamo su un terreno di sabbie mobili che ad ogni passo minaccia di inghiottirci. Quel che è peggio, questa poltiglia ha ricoperto l'intera società internazionale, al punto che perfino il mito e le speranze suscitate da Barack Obama si stanno sbriciolando prima ancora che si sia insediato alla Casa Bianca, i suoi piani di contrasto alla crisi economica oscillano tra spese pubbliche e sgravi fiscali, le cifre cambiano ogni giorno mentre la disoccupazione cresce con velocità esponenziale. È già arrivata all'8 per cento ed è lo stesso Obama a temere che nei prossimi mesi potrebbe superare il 10 della forza lavoro se non si interverrà subito. Gli economisti parlano di trilioni di dollari, ma neppure l'America può mobilitare cifre di questa dimensione a carico del bilancio pubblico già in disavanzo di 1.200 miliardi.
La guerra di Gaza è un altro evento paradossale dove tutti i protagonisti hanno almeno una buona ragione per continuare a massacrarsi. Una buona ragione, ma nessuno sbocco politico con la conseguenza che la comunità internazionale ha di fatto derubricato quel massacro dalle proprie priorità. I morti hanno superato gli ottocento, i feriti i tremila, metà della popolazione è senza elettricità e senz'acqua se non per un'ora al giorno, negli ospedali senza medicine i medici amputano gli arti colpiti perché non sono in condizioni di curarli. Così si va avanti, tra i razzi lanciati da Hamas e le cannonate e le bombe lanciate da Israele. La ragione e il torto sono poltiglia anch'essi. Questa situazione di tutti contro tutti è generale. Ci fosse almeno un'ideologia cui aggrapparsi, ma sono state tutte azzerate, i liberisti di ieri sono ormai i fautori più zelanti dello statalismo, i marxisti hanno scoperto con l'entusiasmo acritico dei neofiti le virtù del mercato. L'Ucraina taglia il gas e Putin ci specula sopra giocando al rialzo sul prezzo del petrolio. La Cina ha dimezzato il ritmo della sua crescita, dal 12 in pochi mesi è scesa al 7 per cento. Il rallentamento colpisce principalmente quei 300 milioni di cinesi che erano emersi dalla marea contadina formando il primo nucleo d'una intraprendente borghesia. La crisi americana ha bloccato le esportazioni, i consumi interni sono ancora ben lontani da costituire una massa critica alternativa. La crescita vertiginosa della Cina ne ha fatto il principale finanziatore del Tesoro americano. Se Obama vorrà mobilitare due o tre trilioni di dollari per creare tre milioni di nuovi posti di lavoro, gran parte di quello sforzo sarà la Cina a doverlo sostenere; ma la Cina a sua volta dovrà finanziare il mercato interno per compensare la caduta delle sue esportazioni. Qui nasce il dilemma tra due contrastanti alternative ed è un dilemma che coinvolge l'intera economia mondiale. Intanto la Merkel, liberista ad oltranza, ha dovuto nazionalizzare la Commerzbank e sta per fare altrettanto con la Opel. Il premier inglese stampa moneta e la sterlina registra una svalutazione di quasi il 40 per cento rispetto all'euro. Sarkozy ha brillato di luce propria nel suo semestre di presidente europeo, ma il suo meritorio attivismo ha tenuto la scena senza lasciare tracce durevoli; adesso si è ridotto ad organizzare forum economici avendo Tremonti ed Enrico Letta come ospiti di eccezione. Così vanno le cose nel mondo. L'Italia sta meglio o meno peggio degli altri, questa è l'opinione sostenuta da Tremonti che sembra molto sicuro di ciò che dice. Finora la gente sembra credergli ed è un bene che sia così. Il giorno che si accorgesse della bugia potrebbero accadere cose molto spiacevoli nel nostro paese. Personalmente non me lo auguro ma purtroppo l'ottimismo di Tremonti poggia anch'esso sulle sabbie mobili e lui ne è perfettamente consapevole. A chi gli domanda che cosa prevede per il 2009 risponde: "Non ho la palla di vetro". Ma non aveva capito fin dal giugno scorso che cosa sarebbe accaduto? Allora la palla di vetro l'aveva, se l'è persa per la strada? Un fatto è certo: finora non ha fatto nulla o quasi nulla per cementare quel pantano. * * * Una prima risposta ce la può dare il pasticcio Alitalia; nell'economia italiana è un caso importante anche se confrontato con quanto sta accadendo nel mondo è come una goccia nel mare in tempesta. Tremonti se ne è tenuto lontano quanto poteva fingendo di dimenticarsi perfino di essere l'azionista di maggioranza della (ormai fallita) compagnia di bandiera. Perciò ne è politicamente e oggettivamente responsabile almeno alla pari col presidente del Consiglio, per il poco che ha fatto e per il molto che non ha fatto. L'affare Alitalia è cominciato malissimo dieci mesi fa e l'altro ieri si è concluso nella farsa. Cioè in un cumulo di bugie con l'intento di darla da bere agli italiani. Non starò a ripetere nel dettaglio un racconto già fatto mille volte. In sommi capi: il governo Prodi era riuscito a vendere l'Alitalia al gruppo Air France-Klm alle migliori condizioni possibili trattandosi d'una azienda praticamente decotta. Air France si accollava i debiti, il personale di volo e di terra con un esubero di duemila persone, pagava gli azionisti offrendo loro il 7 per cento del proprio capitale e integrava il marchio e la compagnia nel gruppo franco-olandese. Questa soluzione fu definita "svendita" da Berlusconi, dalla Lega e da tutto lo stato maggiore di centrodestra nonché dai sindacati aziendali che, forti delle loro amicizie in Alleanza nazionale, puntarono non sulla privatizzazione ma sulla nazionalizzazione dell'azienda. Furono ipotizzate e indicate inesistenti cordate tricolori, Berlusconi ci giocò sopra perfino il nome dei propri figli come possibili sottoscrittori. Avrebbe dovuto bastare l'insensatezza di questo "vaudeville" per mettere in sospetto la pubblica opinione, ma la pubblica opinione propriamente detta già non c'era più, affondata nella poltiglia generale. Dopo dieci mesi, mercoledì prossimo la nuova compagnia Alitalia-Cai darà il via alla sua prima giornata operativa e ai suoi primi voli e noi gli indirizziamo da queste pagine il più sincero augurio di successo, senza però tacere il costo pubblico di questa operazione e i suoi probabili sviluppi. Il costo pubblico è quantificabile in 5 miliardi di euro calcolando il passivo residuo della vecchia Alitalia dopo che avrà realizzato il poco attivo che le è rimasto e avervi aggiunto il costo degli speciali ammortizzatori riservati ai 7.000 dipendenti rimasti senza lavoro. Su questa valutazione concordano tutti gli esperti che hanno verificato le cifre e concorda anche la sola compagnia operante in Italia in parziale concorrenza, la "Meridiana" il cui amministratore ha scodellato le cifre in un'intervista a Repubblica di tre giorni fa. Air France entra nel capitale con il 25 per cento pagato 310 miliardi. Sarà presente nel consiglio d'amministrazione e nel comitato esecutivo. È il solo operatore e vettore aereo in una compagine di azionisti che di questo ramo di attività non sanno nulla ed hanno il cuore e il portafoglio da tutt'altra parte. Tutto fa supporre che tra cinque anni (ma anche prima se vi sarà bisogno di aumenti di capitale e certamente ve ne sarà) Air France diventerà l'azionista di comando. Di fatto lo è già. Bisognava all'ultimo momento superare il veto della Lega e degli amministratori lombardi (Moratti, Formigoni) in favore di Malpensa, bilanciato dagli amministratori laziali (Alemanno, Marrazzo, Zingaretti) schierati in difesa di Fiumicino. I nordisti hanno tirato per la giacca più che potevano il governo affinché imponesse una scelta politica alla nuova compagnia privata. Tremonti, taciturno fino a quel momento, si è schierato con i nordisti i quali tuttavia erano divisi tra loro perché il sindaco di Milano proclamava intoccabile l'aeroporto di Linate mentre Formigoni se ne infischiava. "Malpensa ha tutte le chance per essere l'"hub" (l'aeroporto internazionale) italiano" ha detto il ministro dell'Economia. Per fortuna questa volta la sua parola non ha avuto peso e il premier ha convalidato la scelta privata di Colaninno senza sovrapporgli un'impensabile scelta politica. Bisognava però a quel punto prendere in giro l'opinione pubblica lombarda e padana. Detto e fatto: la parola magica è stata "liberalizzazione", alla luce della quale Malpensa dovrebbe riacquistare una posizione di primo piano tra i grandi aeroporti internazionali. Ebbene, quella parola "liberalizzazione" nel caso specifico non ha alcun significato. Non ce l'ha per l'area europea perché i voli in tutti i 27 paesi dell'Unione sono assolutamente liberi. Ma non ce l'ha per il resto del mondo perché i voli sono regolati da trattati e accordi internazionali circa le frequenze, gli orari, gli "slot". Per arrivare ad un'effettiva liberalizzazione ci vorranno dunque anni, ammesso che ne valga la pena, il che è molto dubbio: un viaggiatore che voglia andare da Venezia o da Bologna o da Genova o da Trieste a New York o a Shanghai o a Cape Town avrà comunque più convenienza a raggiungere Parigi o Francoforte che non Malpensa. * * * Se il buongiorno si vede dal mattino, l'imbroglio Alitalia non dà buone speranze sulla politica economica del governo di fronte alla crisi mondiale. Basti dire che il governo non ha ancora fatto nulla salvo l'elemosina della "social card" finanziata in modo assai dubitabile. Le misure anticrisi contenute nel decreto in corso di esame parlamentare ammontano complessivamente a mezzo punto di Pil, cioè tra i sei e i sette miliardi, dispersi in molti rivoli, bonus, parziali e limitate detassazioni, parziali e limitati incentivi, rifinanziamenti della Cassa integrazione. Con questi sacchetti di sabbia sembra molto improbabile arginare un mare in tempesta d'una recessione mondiale i cui effetti dureranno almeno un anno se non due. Ma già con queste operazioni il nostro deficit rispetto al Pil si posiziona al 3,5 per cento, sconfinando di mezzo punto oltre la soglia di stabilità. Le cause di fragilità dei nostri conti pubblici stanno in questo caso nell'abolizione dell'Ici e nel costo dell'Alitalia. In totale si tratta di otto miliardi dissipati in una fase in cui gli incassi tributari diminuiscono, il reddito anche, l'evasione torna ad aumentare. Tremonti queste cose le sapeva. Avrebbe dovuto impedire quella dilapidazione ma non l'ha fatto. Adesso vedremo che cosa si inventerà, nel senso positivo del termine. Sa anche lui che con i sacchetti di sabbia non si ferma l'oceano.
(11 gennaio 2009) Repubblica

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