lunedì 16 febbraio 2009

I militari internati che dissero no

Milada Cerny/MuchaUn'altra resistenza
di Claudio Magris
L’altra Resistenza, dice il titolo di un celebre libro di Alessandro Natta. Di Resistenze - anche di formazione molto diversa, pur nella comune lotta contro il fascismo e soprattutto contro l'occupatore nazista - ce ne furono, come si sa, molte. Quella di Giustizia e Libertà, quella repubblicana, socialista, cattolica, monarchica, comunista; quest'ultima la più rilevante e organizzata, quella che ha dato il maggior contributo di sangue e che si è pure resa più colpevole di criminose violenze eccedenti la terribile logica della Guerra civile.
Come è noto, le divergenze politiche all'interno della Resistenza portarono, specie ai confine orientali d'Italia, anche a scontri sanguinosi e a delitti fratricidi, quali ad esempio l'eccidio di Malga Porzús. I resistenti al fascismo e soprattutto al nazismo - e le vittime - furono diversi non solo quanto a posizione politica, ma anche per appartenenza etnica, come soprattutto gli ebrei o gli zingari, e per quel che riguarda l'estrazione sociale.
Una di queste categorie di deportati, di resistenti al Leviatano nazista, di cui certo si parla (è stata di recente ricordata e onorata dal presidente Napolitano, col suo forte senso dell'Italia) ma di cui in genere non si parla abbastanza, col rilievo che essa merita, è quella dei militari italiani, massacrati (come a Cefalonia) o catturati dai tedeschi dopo l'8 settembre - in seguito a quel pauroso sbandamento e talora pure all'ignavia di alcuni loro comandanti - e deportati in Germania o trattenuti nei Balcani; rispettivamente circa 550.000 e 100.000, come riporta una recente pubblicazione di Nicolino de Roberto.
Qualificati dai nazisti come «internati» e privati dunque dei diritti riconosciuti, secondo le convenzioni internazionali, ai «prigionieri di guerra », questi militari, soldati e ufficiali, rifiutarono, in stragrande maggioranza, di aderire al nazismo e alla Repubblica di Salò sua alleata, scegliendo così il Lager e durissime condizioni di sofferenza e di umiliazione. Questa loro scelta è stata tanto più difficile e meritoria in quanto non era facile - specialmente per chi non era ideologicamente inquadrato in una formazione politica - capire, nella confusione e nel caos dell' Italia spaccata in due, quale fosse veramente l'Italia.
Vanno parimenti ricordati quei militari che, prigionieri degli inglesi o degli americani, rinunciarono alla libertà per non aderire all'Italia badogliana, spinti da un senso di onore comprensibilmente rafforzato dall'incertezza della situazione e dalla fellonia del re fuggiasco. L'internato militare in un Lager Tedesco era solo, dinanzi ai suoi oppressori e alla sua scelta; solo con la sua coscienza e il suo sentimento, perlopiù senza il sostegno morale e psicologico di una appartenenza politica, che aiuta a scegliere e a combattere, come l'appartenenza a un reggimento in una battaglia.
Quella scelta, essi l'hanno fatta per amore dell'Italia e per un senso profondo dell'onore, oltre che per l'intelligenza che ha fatto loro capire da che parte stava l'umanità. Anch'essi sono protagonisti di quel riscatto della patria e della libertà da cui è nata l'Italia democratica, con la sua Costituzione che oggi si vuole non correggere o aggiornare, bensì distruggere nei suoi fondamenti, che rappresentano la base della nostra vita civile.
E' sconcertante che questa sovversione provenga da chi governa il Paese fondato sulla Costituzione. Oggi quegli ex internati non rappresentano una forza politica né un movimento ideologico e tanto meno una riserva di voti. Forse per questo non siamo loro grati come dovremmo; questi giorni dedicati alla memoria sono una buona occasione per ricordarci a fondo anche di loro.
16 febbraio 2009 Corriere della Sera

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