sabato 30 settembre 2006

Never forget: Giudice ROSARIO LIVATINO

Millet


Giovanni Tinebra ricorda Rosario Livatino a 13 anni dall'agguato mafioso del 21 settembre 1990. Ritratto del “giudice ragazzino” ucciso, mentre si recava al lavoro, sulla strada tra Agrigento e Caltanissetta.

"Il ricordo che ho di Rosario Livatino è dolcissimo. Ricordo come fosse ieri il giorno in cui arrivò alla procura di Caltanisetta come uditore giudiziario con funzioni; cioè in prima destinazione dopo aver vinto il concorso e aver superato il corso di formazione. Procura che frequentavo poiché prestavo servizio nel distretto come sostituto alla procura di Nicosia.

Quello che mi colpì subito, nel suo aspetto, fu l'estrema compostezza,la grande serietà. La serietà dello sguardo e, soprattutto, la modestia che lui professava a volte fino all'inverosimile. Ricordo che, insieme a un altro collega, impiegammo tre mesi per convincerlo a darci del tu. Rosario si ostinava a darci del lei. E noi giù, a parlargli che il magistrato si distingue solo per funzioni e che quindi dovevamo darci del tu, anche perché la nostra età non era molto dissimile dalla sua: eravamo giovanissimi magistrati. Questa è l'essenza del magistrato Livatino.

Non si tratta di un grande eroe della lotta alla mafia, non si tratta di un grande sterminatore di nemici dello Stato. Si tratta di un giovane magistrato, serio, attento, posato, riflessivo. Estremamente sensibile, estremamente attaccato al suo dovere. Si tratta di un magistrato modello, secondo me. Perché il magistrato modello è proprio questo. E' colui il quale professa la sua battaglia contro l'illegalità giorno dopo giorno, cimentandosi nelle imprese giudiziarie le più varie; confrontandosi con le più varie fattispecie di reati, sempre nell'unico grande scopo della riaffermazione della legalità. Questo era Rosario Livatino. Un magistrato che deve servire da modello a tutti i giovani magistrati, ma non solo.

Fu un giovane magistrato che immolò la sua vita anche alla sua modestia perché viaggiava solo. La sua morte non fu il vile attentato a un magistrato che viaggia protetto, nei confronti del quale vengono impiegati terribili strumenti di morte proprio per vincere le difese poste a sua protezione. Fu l'attentato a un magistrato che andava in ufficio da solo, con la sua piccola macchina. E che quindi era protetto unicamente dalla sua bontà, dalla sua imparzialità, dal modo in cui faceva il suo mestiere. Dalla sua limpidezza e dalla sua trasparenza. Fu molto facile dimenticare tutto ciò e sparargli, prima attraverso il vetro della macchina e poi, a sangue freddo dopo averlo inseguito per la scarpata, finirlo con il colpo di grazia.

E' una cosa che ci ha toccato, noi tutti magistrati, e ci tocca ancora oggi. Ci ha fatto vedere cosa può essere l'attaccamento al dovere. Ci ha fatto vedere come si possa arrivare all'estremo sacrificio al servizio di un ideale che è quello della giustizia. Quello che dovrebbe legare a sé tutti gli uomini, almeno quelli di buona volontà.

A volte il destino è bizzarro. Dopo tanti anni dalla sua morte ho avuto l'onere di assumere la responsabilità delle indagini nei confronti degli autori dell'assassinio di Rosario Livatino. Con molta serenità, ora posso dire che, alla fine, i miei colleghi e io abbiamo fatto il nostro dovere. Giustizia è stata veramente fatta: i tre processi nei confronti di nove, tra mandanti ed esecutori, dell'omicidio di Livatino sono stati, con sentenza passata in giudicato, tutti condannati all'ergastolo.

Quanto meno questo. Quanto meno la sua morte è servita anche per togliere di mezzo, mi auguro in maniera permanente e definitiva, nove malfattori dal contesto civile."

Giovanni Tinebra
Capo del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria

20 settembre 2003



Riproduzione consentita citando la fonte www.giustizia.it

Almanacco del 30 settembre

Ferdinand Keller


1882 - La 1° centrale idroelettrica entra in servizio sul fiume Fox, ad Appleton nel Wisconsin

1948 - Esce in edicola il primo Tex

1975 - Strage del Circeo, la sopravvissuta Donatella Colasanti e' morta ancora giovanissima alla fine dell'anno scorso, e sempre per colpa delle violenze subite.

Sono nati:

1882 - Hans Geiger, fisico (contatore Geiger)
1917 - Buddy Rich, batterista jazz
1921 - Deborah Kerr, attrice (La notte dell'iguana)
1924 - Truman Capote, scrittore (Colazione da Tiffany)
1928 - Elie Wieser, scrittore sopravvissuto all'Olocausto, Nobel 1986
1931 - Angie Dickinson, attrice detta Le gambe (rimasi incantata quando la vidi di verde vestita ne La Caccia)
1952 - Lella Costa, attrice (Quando c'era Silvio)



Sono volati via:

1955 - James Dean, attore (Il gigante)
1985 - Simone Signoret, grande attrice, detta Casco D'Oro
Festeggiano: Gregorio e Sofia

Nota personale: Auguri a Imelda, amica-nemica di mia suocera che spegne l'ottantesima candelina ed e' ancora agguerritissima!


«Mai dimenticherò quella notte, la prima notte nel campo, che ha fatto della mia vita una lunga notte e per sette volte sprangata.
Mai dimenticherò quel fumo.
Mai dimenticherò i piccoli volti dei bambini di cui avevo visto i corpi trasformarsi in volute di fumo sotto un cielo muto.
Mai dimenticherò quelle fiamme che bruciarono per sempre la mia Fede.
Mai dimenticherò quel silenzio notturno che mi ha tolto per l’eternità il desiderio di vivere.
Mai dimenticherò quegli istanti che assassinarono il mio Dio e la mia anima, e i miei sogni, che presero il volto del deserto.
Mai dimenticherò tutto ciò, anche se fossi condannato a vivere quanto Dio stesso. Mai.»
Elie Wiesel
Ferdinand Keller (Tratto da La notte, edizione italiana La Giuntina, Firenze, pp.
39-40)

venerdì 29 settembre 2006

Never forget: GIUSEPPE FAVA

Giovanni Fattori



Giuseppe Fava è nato a Palazzolo Acreide (Sicilia) il 15 settembre 1925. E' stato ucciso la sera del 5 gennaio 1984 a Catania, con cinque pallottole alla nuca. La sua è la storia di un intellettuale, uno scrittore e un giornalista impegnato nella lotta contro la mafia dell'isola. Laureato in giurisprudenza nel 1947, Fava si dedica al giornalismo. Professionista dal 1952, caporedattore del quotidiano catanese Espresso Sera dal 1956 al 1980. E' stato inviato speciale del settimanale milanese Tempo Illustrato, ha collaborato con diervse testate nazionali italiane (La domenica del corriere, Tuttosport, La Sicilia).
E' stato pittore, scrittore, drammaturgo, sceneggiatore, saggista, giornalista.
Tra i suoi romanzi: Gente di rispetto (1975, Bompiani), Prima che vi uccidano (1977, Bompiani), Passione di Michele (1980, Cappelli editore) da cui è stato tratto il film "Palermo ober Wolfsburg".
Tra le sue opere teatrali: Cronaca di un uomo, La violenza, Il proboviro, Opera buffa, Bello bellissimo, Foemina ridens, Ultima violenza (che fu rappresentato al teatro Verga di Catania, nel novembre 1983, un mese prima della morte). Una raccolta delle sue pièces teatrali è stata pubblicata dall'editore Tringale di Catania (Teatro, 1988).
Nel 1980 gli viene affidata la direzione del Giornale del Sud. Lo fa diventare un giornale irriverente, coraggioso. Viene licenziato dagli editori. Nel 1982 fonda I Siciliani, che diventano un caso politico nazionale: la Sicilia come metafora, le collusioni tra Stato e mafia, la trappola nucleare di Comiso, i nomi e cognomi dei nuovi padroni dell'isola. Il primo numero esce nel gennaio del 1983: sarà una delle esperienze decisive per il movimento antimafia che si sta formando in Italia, e resta un punto di riferimento fondamentale.
Le sue inchieste giornalistiche sono raccolte nei volumi: Processo alla Sicilia (1970), I Siciliani (1978), Un anno (edito nel 2003 dalla Fondazione Giuseppe Fava).
da www.girodivite.it

«A che serve vivere, se non c'e' il coraggio di lottare?.»
(Giuseppe Fava)

Almanacco del 29 settembre

Pieta'-Andrea Del Sarto

Morning Glories-Winslow Homer

Odalisca-Boucher


Celeberrima canzone di Lucio Battisti.

1922 - Nasce ufficialmente l'Universita' di Padova

1941 - Massacro di Babi Yar

1944 - Eccidio di Marzabotto (vedere su Piero Calamandrei, la poesia)

1978 - viene ritrovato morto nel suo letto il papa eletto da soli 33 giorni: Giovanni Paolo I

Sono nati:

1571 Miguel de Cervantes, scrittore (Don Chisciotte)
1703 Francois Boucher, pittore
1758 Horatio Nelson, ammiraglio-eroe di Trafalgar
1899 Ladisilao Biro', inventore della penna a sfera
1901 Enrico Fermi, fisico Nobel 1938
1902 Cesare Zavattini, scrittore e cineasta (Sciuscia')
1904 Greer Garson, attrice (Prigionieri del passato)
1912 Michelangelo Antonioni (Blow Up)
1913 Treword Howard, attore (Il gran lupo chiama)
1913 Stanley Kramer , regista (Indovina chi viene a cena?)
1913 Silvio Piola, calciatore
1931 Anita Ekberg, l'Anitona della fontana in La Dolce Vita)
1935 Jerry Lee Lewis, musicista
1942 Felice Gimondi, ciclista
1943 Lech Walesa, politico e sindacalista-Nobel 1983
1950 Loretta Goggi, donna di spettacolo
Sono morti:

1530 Andrea Del Sarto, pittore
1902 Emile Zola, scrittore (J'accuse)
1910 Winslow Homer, pittore illustratore
1913 Rudolf Diesel, pioniere automobile

Festeggiano: Gabriele-Michele-Raffaele e Giovanni

giovedì 28 settembre 2006

Never forget: VICTOR JARA

Emil Nolde

Victor Jara nasce nel 1938 a Loquen, una piccola città nei pressi di Santiago, in Cile, da una famiglia di contadini. Dopo alcuni anni di matrimonio, suo padre li abbandona e la madre, Amanda, si ritrova a dover crescere da sola Victor e i suoi fratelli e sorelle. E’ una donna ottimista e molto forte: lei stessa una cantante, insegna a cantare e a suonare la chitarra anche a Victor, e avrà una grande influenza sul suo futuro stile musicale. Amanda muore quando Victor ha solo 15 anni: egli allora entra in seminario, ma dopo soli due anni ne esce per andare ad arruolarsi nell’esercito, dove rimane per alcuni anni. Al suo ritorno a Loquen, Victor inizia a studiare la musica popolare cilena e inizia anche a interessarsi di politica. Comincia a esibirsi in pubblico sempre più spesso, e nel 1966 esce il suo primo disco intitolato semplicemente Victor Jara. Le sue canzoni sono piene d’amore per il suo popolo, semplice e gran lavoratore: molte di esse sono attacchi contro le ingiustizie sociali e gli scandali politici. Victor è elemento portante del movimento musicale conosciuto come Nueva Cancion, coinvolto in molte attività rivoluzionarie. Solge anche un’intensa attività teatrale: nel 1960 mise in scena come regista La Mandragola di Machiavelli e successivamente autori come Bertoldt Brecht, Raul Ruiz, Alessandro Sieveking, Peter Weiss. Nel 1961 come direttore artistico lavorò in Olanda, Francia, Unione Sovietica, Cecoslovacchia. Nello stesso anno conobbe Joan Turner. Nelle elezioni presidenziali del 1973 si schiera per Salvador Allende, dando concerti in favore dei suoi ideali politici. La campagna di Allende è un successo ma, poco dopo essere stato eletto, viene destituito da un colpo di stato organizzato dai militari. Nel corso dei rastrellamenti di quei giorni, anche Victor viene arrestato. Dopo alcuni giorni di prigionia viene portato, assieme ad altri prigionieri politici, nello stadio nazionale del Cile, dove aveva tenuto alcuni dei suoi concerti per Allende. Lì i militari stanno torturando i loro prigionieri: spezzano le mani di Victor e lo deridono, dicendogli di cantare le sue canzoni. Nonostante le torture, Victor intona la canzone del Partito di Unità Popolare, e viene brutalmente ucciso a colpi di pistola. E' il 1973. Sua moglie Joan viene condotta davanti al suo corpo massacrato e ha solamente il tempo di organizzare il funerale e la sepoltura, prima di dover lasciare segretamente il paese, portando con sé alcuni nastri con la sua musica.
Tra le sue canzoni più famose: Plegaría a un labrador (con cui ebbe il primo premio al primo festival della Nueva Cancion Chilena accompagnato dal complesso Quilapayún), Te recuerdo Amanda, El cigarrito, El aparecido, (canzone che porta come sottotitolo: Galope por E.CH.G. ovvero galope -ritmo sudamericano- per Ernesto Che Guevara), El aparecido.
da www.girodivite.it

Almanacco del 28 settembre

Caravaggio



2003 - L'Italia rimane al buio per un colossale black-out

Sono nati:

1565 - Alessandro Tassoni, poeta (La secchia rapita)
1573 - Michelangelo Merisi detto il Caravaggio, pittore
1871 - Pietro Badoglio, generale e politico
1901 - Ed Sullivan, presentatore (il padre di tutti gli show tv, l'Ed Sullivan Show)
1909 - All Capp, fumettista (Li'l Abner)
1915 - Ethel Rosenberg, comunista, giustiziata come spia
1916 - Peter Finch, attore (Domenica, maledetta domenica)
1924 - Marcello Mastroianni, attore e latin lover (La dolce vita)
1932 - Victor Jara, regista e cantante ucciso dal regime Pinochet
1934 - Brigitte Bardot, la mitica B.B. attrice (E Dio creo' la donna)
1934 - Piero Ciampi, poeta e cantautore
1938 - Ben E. King, musicista (Stand by me)


Sono volati via:

1891 - Herman Melville, scrittore (Billy Bud)
1895 - Louis Pasteur, scienziato
1964 - Harpo Marx, attore
1966 - Andre' Breton, poeta (L'amour fou)
1970 - John Dos Passos, romanziere (42° parallelo)
1991 - Miles Davis, trombettista e mito del jazz
2003 - Elia Kazan, cineasta (Fronte del porto)
Festeggiano: Alessandro-Antonio-Fausto-Lorenzo-Marina-Marco-Massimo e Simon

Nota personale: E stringi, e allarga, e accorcia e allunga, grazie Rosetta e buon compleanno.

mercoledì 27 settembre 2006

n.d.r. Sono un'ignorante

Cattedrale di Chartres




Sono veramente ignorante
Ho scritto Pietro Calamandrei, ma lui si chiamava PIERO, Piero uno dei nomi piu' belli del mondo.

Never forget: Don GIUSEPPE PUGLISI

O.Bednar-Crisantemi


Don Giuseppe Puglisi nasce nella borgata palermitana di Brancaccio il 15 settembre 1937, figlio di un calzolaio e di una sarta, e viene ucciso dalla mafia nella stessa borgata il 15 settembre 1993, giorno del suo 56° compleanno.

Entra nel seminario diocesano di Palermo nel 1953 e viene ordinato sacerdote dal Cardinale Ernesto Ruffini il 2 luglio 1960. Nel 1961 viene nominato vicario cooperatore presso la parrocchia del SS.mo Salvatore nella borgata di Settecannoli, limitrofa a Brancaccio, e rettore della chiesa di San Giovanni dei Lebbrosi.

Nel 1967 è nominato cappellano presso l’Istituto per orfani di lavoratori «Roosevelt» e vicario presso la parrocchia Maria SS.ma Assunta Valdesi.

Sin da questi primi anni segue con attenzione i giovani e si interessa delle problematiche sociali dei quartieri più emarginati della città.

Il primo ottobre 1970 viene nominato parroco di Godrano, un piccolo paese in provincia di Palermo - segnato da una sanguinosa faida - dove rimane fino al 31 luglio 1978 riuscendo a riconciliare le famiglie con la forza del perdono.

In questi anni segue anche le battaglie socia­li di un’altra zona della periferia orientale della città, lo «Scaricatore». Il 9 agosto 1978 è nominato pro-rettore del Seminano minore di Palermo e il 24 novembre dell’anno seguente direttore del Centro Diocesano Vocazioni. Nel 1983 diventa responsabile del Centro Regionale Vocazioni e membro del Consiglio nazionale.

Agli studenti e ai giovani del Centro Diocesano Vocazioni ha dedicato con passione lunghi anni realizzando, attraverso una serie di “campi scuola”, un percorso formativo esemplare dal punto di vista pedagogico e cristiano.

Don Giuseppe Puglisi è stato docente di matematica e poi di religione presso varie scuole.

Ha insegnato al liceo classico Vittorio Emanuele II a Palermo dal 78 al 93.

Dal 23 aprile 1989 sino alla morte svolse il suo ministero sacerdotale presso la Casa Madonna dell’accoglienza dell’Opera Pia Card. E. Ruffini in favore di giovani donne e ragazze in difficoltà.

Nel 1992 assume l’incarico di direttore spirituale nel Seminario Arcivescovile di Palermo.

A Palermo e in Sicilia è stato tra gli animatori di numerosi movimenti tra cui Presenza del Vangelo, Azione Cattolica, Fuci, Equipe Notre Dame.

Il 29 settembre 1990 è nominato parroco della Parrocchia S. Gaetano di Brancaccio. L’annunzio di Gesù Cristo desiderava incarnarlo nel territorio, assumendone quindi tutti i problemi per farli propri della comunità cristiana.

La sua attenzione si rivolse al recupero degli adolescenti già reclutati dalla criminalità mafiosa, riaffermando nel quartiere una cultura della legalità illuminata dalla fede.

Questa sua attività pastorale come è stato ricostruito dalle inchieste giudiziarie ha costituito un movente dell’omicidio, i cui esecutori e mandanti sono stati arrestati e condannati.

Nel ricordo del suo impegno, scuole, centri sociali, strutture sportive, strade e piazze a lui sono state intitolate a Palermo e in tutta la Sicilia.

A partire dal 1994 il 15 settembre, anniversario della sua morte, segna l’apertura dell’anno pastorale della diocesi di Palermo.

Il 15 settembre 1999 il Cardinale Salvatore De Giorgi ha insediato il Tribunale ecclesiastico diocesano per il riconoscimento del martirio di don Giuseppe Puglisi, presbitero della Chiesa Palermitana.

La sua vita e la sua morte sono state testimonianze della sua fedeltà all’unico Signore e hanno disvelato la malvagità e l’assoluta incompatibilità della mafia con il messaggio evangelico.
Lo hanno ucciso in "strada". Dove viveva, dove incontrava i "piccoli", gli adulti, gli anziani, quanti avevano bisogno di aiuto e

quanti, con la propria condotta, si rendevano responsabili di illegalità, soprusi e violenze. Probabilmente per questo lo hanno

ucciso: perché un modo così radicale di abitare la "strada" e di esercitare il ministero del parroco è scomodo.

Lo hanno ucciso nell'illusione di spegnere una presenza fatta di ascolto, di denuncia, di condivisione.

Ricordare quel momento significa non soltanto "celebrare", ma prima di tutto alzare lo sguardo, far nostro l'impegno di don

Giuseppe, raccogliere quell'eredità con la stessa determinazione, con identica passione e uguale umiltà.




Cosa ci ha consegnato don Giuseppe? Innanzitutto il suo modo di intendere e di vivere la parrocchia, di essere parroco.

Non ha pensato, infatti, la parrocchia unicamente come la "sua" comunità di fedeli, come comunità di credenti slegata dal contesto

storico e geografico in cui è inserita. L'ha vissuta, prima di tutto, come territorio, cioè come persone chiamate a condividere uno

spazio, dei tempi e dei luoghi di vita. Per partecipare alla vita di chi gli era vicino ha accettato di percorrere e ripercorrere le strade

del rione Brancaccio. Ha vissuto la strada -quella strada che Gesù ha fatto sua- come luogo di povertà, di bisogni, di linguaggi,

di relazioni e di domande in continua trasformazione. L'ha abitata così e ha tentato, a ogni costo, di restarvi fedele.

In altre parole, ha incarnato pienamente la povertà, la fatica, la libertà e la gioia del vivere, come preti, in parrocchia.

Con la sua testimonianza don Pino ci sprona a sostenere quanti vivono questa stessa realtà con impegno e silenzio.

Non il silenzio di chi rinuncia a parlare e denunciare, ma quello di chi, per la scelta dello "stare" nel suo territorio,

rifiuta le passerelle o gli inutili proclami. "Beati i perseguitati a causa della giustizia perché di essi è il Regno dei cieli" (Mt 5, 10).

Anche questo ci ha consegnato don Giuseppe: una grande passione per la giustizia, una direzione e un senso per il nostro

essere Chiesa e soprattutto un invito per le nostre parrocchie ad alzare lo sguardo, a dotarsi di strumenti adeguati e incisivi

per perseguire quella giustizia e quella legalità che tutti, a parole, desideriamo. Per questo don Giuseppe è morto:

perché con l'ostinata volontà del cercare giustizia è andato oltre i confini della sua stessa comunità di credenti.

"Entrato in casa di uno dei capi dei farisei, Gesù..." (Lc 14, 1). Ecco un altro aspetto ricco di significati.

Al di là dei princìpi o delle roboanti dichiarazioni ciò che conta è la capacità di viverli e di praticarli nella quotidianità.

Don Puglisi non è stato ucciso perché dal pulpito della sua

chiesa annunciava princìpi astratti, ma perché ha voluto uscire dalla loro
genericità per testimoniarli nella vita quotidiana, dove le relazioni e i problemi assumono la dimensione più vera.

da: www.giovaniemissione.it

Never forget: PIETRO CALAMANDREI

Margherita Caffi



Sono oggi 50 anni dalla morte di Pietro Calamandrei.

(Firenze 21 aprile 1889 - ivi 27 settembre 1956) è stato un giornalista, un docente universitario, un giurista ed un uomo politico italiano.

Politicamente schierato a sinistra, subito dopo la marcia su Roma e la vittoria del fascismo fece parte del consiglio direttivo dell' Unione Nazionale fondata da Giovanni Amendola. Manifestò sempre la sua avversione alla dittatura mussoliniana e durante il ventennio fascista fu uno dei pochi professori che non ebbe né chiese la tessera del Partito Nazionale Fascista continuando sempre a far parte di movimenti clandestini, ad esempio collaborando alla testata Non mollare.

Contrario all'ingresso dell'Italia nella Seconda guerra mondiale a fianco della Germania, nel 1941 aderí al movimento Giustizia e Libertà ed un anno dopo fu tra i fondatori del Partito d'Azione insieme a Ferruccio Parri, Ugo La Malfa ed altri. In questo periodo (1939-1945) tenne un diario, pubblicato nel 1982. Nel 1940 fu, insieme a Francesco Carnelutti ed a Enrico Redenti, uno dei principali ispiratori dei Codice di procedura civile, dove trovarono formulazione legislativa gli insegnamenti fondamentali della scuola di Chiovenda. Si dimise da professore universitario per non sottoscrivere una lettera di sottomissione al duce che gli venne chiesta dal Rettore del tempo.

Nominato Rettore dell'Università di Firenze il 26 luglio 1943, dopo l'8 settembre fu colpito da mandato di cattura, cosicché esercitò effettivamente il suo mandato dal settembre 1944, cioè dalla liberazione di Firenze, fino all'ottobre 1947.

Principe del foro della sua città dal 1946 fino alla morte, nello stesso anno fu membro della Consulta Nazionale e dell'Assemblea Costituente in rappresentanza del Partito d'Azione. Partecipò attivamente ai lavori parlamentari come componente della Giunta delle elezioni della commissione d'inchiesta e della Commissione per la Costituzione italiana. I suoi interventi nei dibattiti dell'assemblea ebbero larga risonanza: specialmente i suoi discorsi sul piano generale della Costituzione, sugli accordi lateranensi, sulla indissolubilità del matrimonio, sul potere giudiziario.

Quando il Partito d'Azione si sciolse, entrò a far parte del Partito Socialdemocratico Italiano, con cui fu eletto deputato nel 1948. Contrario alla «legge truffa» votata anche con l'appoggio del suo partito, nel 1953 prese parte alla fondazione del movimento di Unità popolare con il vecchio amico Ferruccio Parri, che, nonostante l'esiguo risultato ottenuto, fu decisivo affinché la Democrazia Cristiana e i partiti suoi alleati non raggiungessero la percentuale di voti richiesta dalla nuova legge per far scattare il premio di maggioranza.

Accademico nazionale dei Lincei, direttore dell'Istituto di diritto processuale comparato dell'Università di Firenze, fu direttore della Rivista di diritto processuale, de Il Foro toscano e del Commentario sistematico della Costituzione italiana. Non erano queste le sue prime esperienza giornalistiche: nell'aprile del 1945 aveva infatti fondato il settimanale politico-letterario Il Ponte.

Albert Kesselring, che durante il secondo conflitto mondiale fu il comandante della forze del Terzo Reich in Italia, venne condannato a morte nel processo di Norimberga per i numerosi eccidi che l'esercito nazista aveva commesso nel nostro paese (Fosse Ardeatine, Marzabotto ed altre). Successivamente la condanna fu tramutata in ergastolo ma egli venne rilasciato nel 1952 per le sue gravi condizioni di salute, che gravi in realtà non erano perché l'ex gerarca avrebbe infatti vissuto per altri otto anni o poco più.

Tornato libero, Kesselring disse che non era pentito di ciò che aveva fatto ed anzi dichiarò che gli italiani, per il bene che aveva fatto, avrebbero dovuto fargli un monumento. In risposta a questo commento Piero Calamandrei scrisse la celebre epigrafe "Lo avrai, camerata Kesselring...", il cui testo venne posto sotto una lapide ad ignominia che il comune di Cuneo ha dedicato a Kesselring.

Il testo della celebre epigrafe è:

Lo avrai
camerata Kesselring
il monumento che pretendi da noi italiani
ma con che pietra si costruirà
a deciderlo tocca a noi.

Non coi sassi affumicati
dei borghi inermi straziati dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità
non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire.

Ma soltanto col silenzio dei torturati
Più duro d'ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato fra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare
la vergogna e il terrore del mondo.

Su queste strade se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ora e sempre
RESISTENZA.

Estratto da "http://it.wikipedia.org/wiki/Piero_Calamandrei"


Buon sonno grande Padre della Patria

Almanacco del 27 settembre

Dancers in pink- Edgar Degas



1540 - viene fondata da S.Ignazio di Loyola la Compagnia di Gesu'

1940 - Il patto Tripartito viene firmato a Berlino da Germania nazista, Impero Giapponese e Italia fascista.

Sono nati:

1871 - Grazia Deledda, scrittrice Nobel 1936 (Canne al vento)
1898 - Valentino Bompiani, editore
1903 - Alessandro Pavolini, il Superfascista (fondatore delle brigate nere)
1914 - Gino Gentili, archeologo
1922 - Arthur Penn, regista (La Caccia)
1927 - Romano Scarpa, vignettista Disney
1928 - Ariel Sharon, generale e 1° ministro di Israele
1951 - Meat loaf, cantante, attore (The Rocky Horror Picture Show)
1953 - Claudio Gentile, calciatore
1961 - Irvine Welsh, scrittore (Trainspotting)
1976 - Francesco Totti, calciatore campione del mondo

Sono volati via:

1917 - Edgar Degas, pittore

1957 - Leo Longanesi, editore e umorista
1984 - Nicolo' Carosio, primo radiocronista

Festeggiano: Ilario e Vincenzo

WTO: giornata mondiale del turismo

"Non sono le idee che mi spaventano, ma le facce che rappresentano queste idee"

Leo Longanesi

martedì 26 settembre 2006

Never forget: GIOVANNI PALATUCCI

Rubino di Burma, una delle pietre piu' pure


Nacque a Montella - in provincia di Avellino - il 31 maggio 1909 da Felice e Angelina Molinari. Importante fu nella sua formazione l’autorevolezza morale e culturale degli zii Antonio e Alfonso - che diverranno membri e docenti dell’Almo Collegio Teologico di Napoli e superiori provinciali dei Francescani conventuali in Puglia e a Napoli - e dello zio Giuseppe Maria Palatucci, Vescovo di Campagna. Compì gli studi ginnasiali presso il Ginnasio Pascucci di Pietradefusa ed il Liceo nella non lontana Benevento. Dopo la maturità, venne il tempo del servizio militare (1930) per il quale fu destinato, come allievo ufficiale di complemento, a Moncalieri.

Nel 1932, a ventitré anni, si laurea in giurisprudenza presso l’Università di Torino. Il 16 settembre 1936 è a Genova dove formula promessa di volontario Vice Commissario di Pubblica Sicurezza. Un telegramma del ministero dell'Interno del 3 novembre 1937 gli annuncia il trasferimento a Fiume presso la cui Questura - ove negli anni successivi avrà incarichi di Commissario e di Questore reggente - assumerà la responsabilità dell’ufficio stranieri, che lo porterà a contatto diretto con una realtà di rara umanità ed in particolare con la condizione degli Ebrei". Una nota protocollata il 16 scrive che Palatucci "ha qui assunto servizio il 15 corrente".

Fiume risente ancora dell'atmosfera cosmopolita dovuta al fatto di esser stata il porto di Budapest e uno dei crocevia dei popoli che componevano l'Impero austroungarico. Ovvio che ci sia un'importante comunità ebraica. Un anno dopo, il 1938, ovvero l'anno delle leggi razziali, arriverà come prefetto Temistocle Testa, un funzionario che dell'antisemitismo ha fatto una bandiera. Ecco un passaggio della lettera che scrive al gabinetto del ministero dell'Interno il 21 ottobre 1940: "Fiume è forse l'unica (provincia) che non permette la chiusura al sabato e alle altre feste, oltre ad aver chiuso definitivamente tutti i negozi ebraici di Abbazia (oggi Opatija), ma ha anche il primato di 200 ebrei internati".

Giovanni Palatucci era iscritto al Pnf ma era anche un cattolico di profonda fede; non sappiamo quali furono le sue prime reazioni alle leggi razziali, ma da parecchie testimonianze risulta chiaro come, via via che crebbe il pericolo per gli ebrei, egli rifiutasse di farsi complice delle persecuzioni. Egli non volle allontanarsi da Fiume neanche quando il Ministero dispose nell’aprile del 1939 il trasferimento a Caserta. Rodolfo Grani, ebreo fiumano, ricorda un primo grande salvataggio nel marzo del 1939. Si trattava di 800 fuggiaschi che dovevano entro poche ore essere consegnati alla GESTAPO. Il dott. Palatucci avvisò tempestivamente Grani, il quale si mobilitò ed ottenne l’intervento del Vescovo Isidoro Sain che, a sua volta, nascose temporaneamente i profughi nella vicina località di Abbazia sotto la protezione del Vescovado. Quando nel giugno del 1940 scoppiò la guerra e gli israeliti di Fiume e dintorni furono arrestati ed accompagnati maggior parte al campo di concentramento di Campagna, Palatucci li raccomandò alla benevolenza di suo zio, S. E. Giuseppe Maria Palatucci, Vescovo di Campagna.

La figura di S. E. Giuseppe Maria Palatucci, Vescovo di Campagna si saldò inscindibilmente, a partire dal giugno del 1940, con quella del nipote Giovanni; il giovane responsabile dell’Ufficio stranieri infatti, quando la via dell’emigrazione non era possibile, inviava gli ebrei presso il campo di concentramento di Campagna affidandoli alla protezione dello zio Vescovo. Giovanni dunque si rendeva conto che quel campo, pur con tutti i disagi dell’internamento, offriva un rifugio agli ebrei assai più sicuro delle terre jugoslave e, d’intesa con lo zio Vescovo, mise in opera ogni stratagemma per avviare là i profughi minacciati da immediati pericoli. Per non avere ostacoli dal Prefetto e dal Questore, presentava loro la soluzione dell’internamento nell’Italia meridionale come rimedio per liberarsi della presenza dei profughi che costituiva una minaccia per la sicurezza pubblica.

"Ho la possibilità di fare un po’ di bene, e i beneficiati da me sono assai riconoscenti. Nel complesso riscontro molte simpatie. Di me non ho altro di speciale da comunicare". È quanto scriveva l’8 dicembre 1941 Giovanni Palatucci in una lettera inviata ai genitori. Niente di speciale davvero, se non fosse che quel "po’ di bene", compiuto nel più totale sprezzo del pericolo e in tempi difficili, significò la salvezza di centinaia di ebrei; oltre cinquemila, secondo quanto riferito dal delegato italiano Rafael Danton alla prima Conferenza ebraica mondiale tenutasi a Londra nel 1945.

Nel frattempo nel 1941 l'Italia ha invaso la Jugoslavia e ne ha annesso parte del territorio. Un'altra parte del Paese è stata annessa alla Germania, mentre viene creato uno stato-fantoccio dei tedeschi, la Croazia dell'ustascia Ante Pavelic. Nei territori sotto controllo tedesco e croato cominciano i rastrellamenti di ebrei (nel solo autunno del 1941 gli ustascia spediscono nei campi 45 mila ebrei croati), in quelli controllati dagli italiani, nonostante i Testa, non accade quasi nulla. "La deportazione degli ebrei è contraria all'onore dell'esercito italiano", risponde a muso duro il comandante delle divisione "Murge", generale Paride Negri, a un generale tedesco che gli chiede di svuotare Mostar dagli ebrei. (Menachem Shelah, Italian Rescue of Yugoslav Jews, in The Italian Refuge, edited by Ivo Herzer). Ovvio che in una situazione del genere gli ebrei cercassero di fuggire da tedeschi e ustascia rifugiandosi nelle zone italiane.

Palatucci e lo zio Vescovo dunque si fecero in quattro per risolvere positivamente i problemi degli ebrei; e se la via ufficiale incontrava grossi intoppi, Giovanni trovava sempre un modo per far imbarcare clandestinamente i profughi su qualche nave e farli arrivare sotto la protezione dello zio. Fino all’8 settembre 1943 il ponte sul fiume Eneo, che divideva il territorio fiumano dalle terre Jugoslave controllate dall’esercito italiano, divenne il canale di salvezza per migliaia di ebrei dell’Europa orientale e di tutte le regioni della Jugoslavia sottoposte agli ustascia ed ai nazisti.

Gli ebrei presenti a Fiume l’8 settembre 1943 erano 3500, in gran parte profughi della Croazia e della Galizia. Con la creazione della Repubblica Sociale ed il disfacimento dell’esercito italiano, Palatucci rimane solo in quella città a rappresentare la faccia di un’altra Italia che non voleva essere complice dell’olocausto.

Nel novembre del 1943 il territorio di Fiume fu incorporato nella Adriatisches Kustenland, che si estendeva dalla provincia di Udine a quella di Lubiana. Era una vera e propria regione militare comandata dal gauliter Friedrich Rainer che disponeva di poteri assoluti. Lo Stato italiano di fatto in quel vasto territorio non esisteva più. A Fiume l’ufficiale tedesco, che poteva decidere vita e morte di chiunque, era il Capitano delle SS Hoepener. In una situazione disperata, Giovanni Palatucci decide di rimanere a Fiume e diventa capo di una Questura fantasma, si rifiuta di consegnare ai nazisti anche un solo ebreo, anzi continua a salvarne molti rischiando la vita. Il Console svizzero a Trieste, che è un grande amico di Palatucci, lo mette sull’avviso che anche lui è in pericolo e lo invita a trasferirsi in Svizzera. Palatucci aiuta ad espatriare in Svizzera la donna ebrea di cui era innamorato, ma rimane ancora a Fiume: dice all’amico svizzero che non se la sente di "abbandonare nelle mani dei nazisti gli italiani e gli ebrei di Fiume".

Prende contatto con i partigiani italiani e, sotto il nome di Danieli, concorda con loro un progetto, da far giungere agli alleati, per la creazione, a guerra finita, di uno Stato libero di Fiume. Nel febbraio Palatucci viene nominato, da uno Stato che non esiste più, Questore reggente di Fiume. In questo modo però poteva aiutare gli ebrei solo clandestinamente: fa sparire allora gli schedari, dà soldi a quelli che hanno bisogno di nascondersi, riesce a procurare a qualcuno il passaggio per Bari su navi di paesi neutrali.

I nazisti, messi sull’avviso da spie, non fidandosi più di lui gli perquisirono la casa. Palatucci ingiunge allora all’ufficio anagrafico del Comune di non rilasciare più certificati ai nazisti, se non dietro sua autorizzazione, allo scopo di conoscere in anticipo le razzie organizzate dalle SS. Il Capitano Hoepener infatti organizza una grande retata di ebrei: Palatucci però riesce a preavvertire gli interessati e li aiuta a nascondersi. A questo punto il Capitano delle SS capisce di essere stato beffato e anche i partigiani consigliano a Palatucci di lasciare Fiume; ma egli resta ancora.

Il 13 settembre 1944 però, Palatucci venne arrestato dalla GESTAPO e tradotto nel carcere di Trieste; il 22 ottobre poi fu trasferito nel campo di sterminio di Dachau dove trovò la morte a pochi giorni dalla Liberazione e a soli 36 anni, ucciso dalle sevizie e dalle privazioni o - come anche fu detto - a raffiche di mitra.

(biografia tratta in gran parte dal sito del Comitato Palatucci)

io l'ho trovato su www.romacivica.net


Oggi e' un Giusto d'Israele.

Almanacco del 26 settembre

T.Gericault (Louise Vernet, enfant) Musee du Louvre





Un eroe sconosciuto: 1983 L'ufficiale sovietico STANISLAV PETROV evita una guerra mondiale nucleare.

Sono nati:

1791 - Theodore Gericault, pittore
1871 - Winsor Mc Cay, fumettista (Little Nemo)
1888 - Thomas S. Eliot, poeta, Nobel 1948 (La terra desolata)
1889 - Martin Heidegger, filosofo (Introduzione alla metafisica)
1897 - Papa Paolo VI
1898 - George Gershwin, compositore (Rhapsody in blue)
1927 - Enzo Bearzot, CT campione del mondo
1941 - Salvatore Accardo, violinista e direttore d'orchestra
Sono volati via:

1868 - August Ferdinand Mobius, matematico e astronomo
1937 - Bessie Smith, cantante blues
1945 - Bela Bartok, compositore e pioniere dell'etnomusica (Il castello del principe Barbablu)
1973 - Anna Magnani, grande del cinema (Pelle di serpente)
1990 - Alberto Moravia, scrittore (L'amore coniugale)
1991 - Viviane Romance, attrice (La bella brigata)
Festeggiano: Damiano e Teresa

Nota personale: Auguri a Giovannino

lunedì 25 settembre 2006

Never forget: STEVE BIKO

Groper


«Abbiamo ucciso Biko»
[Massimo A. Alberizzi, «Abbiamo ucciso Biko», Corriere della Sera 29 gennaio 1997]

Ci sono voluti vent'anni, ma alla fine il sipario è stato alzato sulla morte di Steve Biko: il leader antiapartheid (come si era sempre sospettato) è stato assassinato da un gruppo di poliziotti che ieri hanno confessato. Gli agenti hanno chiesto perdono alla speciale commissione per la Verità e la Riconciliazione, presieduta da Desmond Tutu, organo autorizzato a raccogliere confessioni sulle violazioni dei diritti umani durante il regime razzista e concedere amnistie.

Tra gli assassini (almeno 10) figurano il colonnello Harold Snyman, che coordinava gli interrogatori, il tenente colonnello Gideon Mieuwoudtm, il capitano Daantje Siebert e i sottufficiali Ruben Marx e Johan Beneke. Il gruppo ha confessato di aver ammazzato (o fatto ammazzare) durante il regime di segregazione razziale parecchi attivisti neri che lottavano per l'abolizione dell'apartheid.

Tra gli altri, nel 1985, furono uccisi barbaramente quattro studenti, Matthew Goniwe, Sicelo Mhlawli, Fort Calata e Sparrow Mkhonto: furono rapiti, bruciati a sangue freddo, le loro ceneri disperse nel fiume Fish e le loro auto abbandonate al confine con il Lesotho per far credere che i quattro erano fuggiti all'estero.

Steve Biko morì (a quasi 30 anni) il 12 settembre 1977 in un ospedale di Pretoria dove era arrivato (dalla prigione di Port Elizabeth, lontana oltre 1000 chilometri) incosciente per le ferite alla testa provocategli dalle percosse dei poliziotti.

Assieme a Mandela è la figura simbolo della lotta contro la segregazione razziale. Era giovane, ma aveva già entusiasmato le folle con i suoi trascinanti comizi nelle township. Non predicava l'odio razziale contro i bianchi. Come testimonia il suo libro, «Black as I am» («Nero come sono»), invitava i. neri a distinguere tra i bianchi e il loro governo. Non era dunque una questione di razza e colore. Piuttosto era un fatto politico che come tale doveva essere trattato. Lotta a un sistema, dunque, e non guerra generalizzata a chi aveva la pelle diversa.

Per questo, pur essendo amato dalla sua gente, si era attirato le ire degli elementi più radicali delle lotta antiapartheid che gli rimproveravano troppa indulgenza con il «nemico». Accuse in gran parte infondate; la sua analisi sulla politica dell’odiato regime, infatti, era spietata e dura. L'apartheid andava combattuto caparbiamente fino alla sconfitta e alla caduta.

Sapeva però che il nuovo Sudafrica dei suoi sogni, fatto di gente libera e uguale, non poteva fondarsi sull'odio e sulla discriminazione razziale (seppure al contrario), sulle vendette e sulle ritorsioni. «L'odio» ‑ diceva. ‑ «non si combatte con l’odio». Ciononostante non perdeva occasione di accusare il governo sostenendo, tra l'altro, l'importanza delle sanzioni internazionali per isolare il Sudafrica. Memorabile, in questo senso, l'arringa pronunciata davanti ai giudici il giorno dei suo ultimo processo, quello che lo portò alla prigione di Port Elizabeth e alla morte: un atto d’accusa scolpito nelle coscienze di parecchi intellettuali occidentali.

La sua scomparsa suscitò grande impressione in tutto il mondo tanto che gli fu dedicata, una canzone e la sua figura ispirò un film.

L'anno scorso la vedova di Biko, aveva presentato alla Corte Suprema un’istanza per impedire alla commissione presieduta da Tutu di concedere l'amnistia ai responsabili dei crimini più gravi. il ricorso fu respinto.

Una canzone e un film rilanciarono la leggenda.

Un giornalista bianco e un attivista di colore, uniti nella lotta contro l'apartheid. Il nero viene ucciso in carcere, il bianco fugge dal Sudafrica per raccontare al mondo la morte del suo amico. La storia di Donald Woods e di Steven Biko è diventata un film, «Cry Rreedom ‑ Grido di libertà», nel 1987. Un film diretto da sir Richard Attemborough, il regista di «Gandhi».

Il Sudafrica decide di bandire il film, Hollywood risponde premiandolo con tre nomination all'Oscar (tra cui quella per Denzel Washington, che qualche anno dopo interpreterà un altro eroe dei neri, Malcolm X). Peter Gabriel scrive «Biko», canzone dedicata all'eroe dei neri sudafricani. E diventa un inno antiapartheid per i ragazzi di tutto Il mondo.

A sorpresa nel luglio 187, Pretoria decide di permettere la proiezione di «Grido di libertà». Ma il giorno della prima il governo fa spegnere i protettori nelle sale gremite di spettatori. il motivo? «Il film fomenta l'agitazione e il clima di sommossa», è la motivazione ufficiale. Il comandante in capo della polizia, Hendrik de Witt, fa sequestrare la pellicola. Ma molte sale continuano lo stesso a proiettare il film per tutto il giorno.

dal sito www.presentepassato.it

Never forget: I POMPIERI DI NEW YORK

Marini



vi mando al loro links:

http://www.firehouse.com/terrorist/

e grazie sempre a queste persone che sacrificano la loro vita per gli altri.

Perche' i pompieri sono fatti cosi'.

Never forget: SANDRO PERTINI

J.E.Akkeringa



Ostile fin dall'inizio al regime fascista si iscrisse al PSU dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti. Per la sua attività politica fu spesso bersaglio di aggressioni squadriste e il 22 maggio 1925 venne arrestato per aver distribuito un giornale clandestino che denunciava le violenze del regime. La condanna non attenuò la sua attività, che riprese appena liberato, tanto che già nel 1926 venne nuovamente condannato a cinque anni di confino nel carcere della piccola isola di Santo Stefano.

Entrato in clandestinità, sfuggì alla cattura e si rifugiò prima a Milano, quindi espatriò verso la Francia assieme a Filippo Turati con l'aiuto di Carlo Rosselli e Adriano Olivetti. Non interruppe il proprio attivismo neppure in esilio e nel 1929 tornò in patria con un passaporto falso, ma venne presto nuovamente arrestato e condannato dal tribunale speciale per la difesa dello Stato a 11 anni di reclusione. Riacquistò la libertà solo nell'agosto del 1943 per rituffarsi subito nella lotta antifascista. Catturato dalle SS assieme a Giuseppe Saragat, venne condannato a morte; la sentenza non venne eseguita perché l'azione di un gruppo partigiano permise a Pertini di fuggire.

Partecipò quindi attivamente alla Resistenza come membro del CLNAI partecipando anche alla liberazione di Firenze. Nel 1945 fu con Leo Valiani e Luigi Longo tra gli organizzatori dell'insurrezione di Milano. Come spesso volle malinconicamente ricordare, mentre il 25 aprile partecipava alla festa per l'avvenuta liberazione, il suo fratello minore Eugenio veniva ammazzato nel campo di sterminio di Flossenbürg.

Fu lo stesso Pertini, il 25 aprile 1945, ad annunciare alla radio la liberazione dell'Italia dai nazifascisti.

L'8 giugno 1946 sposò la giornalista e partigiana Carla Voltolina (Torino, 14 giugno 1921 - Roma, 6 dicembre 2005).

da wikipedia

Never forget: Giudice CESARE TERRANOVA

Eugene Bidau-Flowers a Cesare
e alla sua guardia del corpo LENIN MANCUSO


“Ad onore dei miei genitori voglio ricordare che i principi che mi hanno guidato in tutta la vita sono frutto della educazione da loro ricevuta e che, se in qualche misura sono riuscito ad operare bene da uomo e da cittadino, ciò lo devo soprattutto agli insegnamenti e agli esempi costanti di mio padre e di mia madre, ai quali va la mia infinita gratitudine.” 1 marzo 1978 Cesare Terranova
A Palermo viene assassinato Cesare Terranova con la sua guardia del corpo. Per due legislature, eletto nelle liste del PCI e membro della commissione antimafia, stava indagando su casi scottanti: sulla droga, che negli ultimi tempi sull'isola ha un ruolo preponderante nel traffico internazionale degli stupefacenti, oltre il consumo in Italia che é già a dimensioni allarmanti.Terranova era il magistrato che inchiodò nel '74 Luciano Liggio a Milano, la "Primula Rossa" di Corleone. Il Boss lasciò la potente organizzazione in Sicilia in eredità ai suoi due luogotenenti Toto Riina e Calogero Bagarella ( legati a Buscetta, Bontade (imperatore delle Tv, morirà ammazzato il 24 aprile 1981), Badalamenti, Salvo, Turatello - e altri nomi che si intrecciano con le BR, Moro, Della Chiesa, Pecorelli, Gelli, Sindona, Calvi, Borsellino, Falcone e.... omissis, omissis, omissis)
"E solo l'inizio (ed era vero! ma all'incontrario) -disse quel giorno il magistrato a Milano - vinceremo la lotta contro la mafia; è dal 1904 che lo Stato non registrava un successo così importante". Ma Liggio o qualcuno per lui, lo aveva già quel giorno condannato a morte. Ma chissà perchè l'assassinio fu rivendicato da Ordine Nuovo (gli stessi che rivendicarono la strage di Piazza Fontana a Milano, Piazza della Loggia a Brescia, attentato a Rumor, e altri tanti drammatici eventi che hanno funestato l'Italia).
Il passaggio dalla vecchia mafia alla mafia imprenditrice non fu incruento. Come sempre i regolamenti di conti e i processi di rinnovamento vennero raggiunti con il sangue. All'inizio degli anni Ottanta scoppiò infatti la grande guerra di mafia che porterà al potere il gruppo tutt'ora egemone: i Corleonesi di Totò Riina, in principio rappresentati in Commissione dal "Papa" della Mafia, Michele Greco, della famiglia di Ciaculli, località alle porte di Palermo.
La guerra fu condotta con una violenza inaudita. In seguito si disse che questa era una novità, che la vecchia mafia usava metodi meno violenti, e che la nuova mafia aveva perso il vecchio "senso dell'onore". A smentire questa versione stanno però i resoconti storici che risalgono fino al secolo scorso, e che da sempre narrano l'estrema violenza nella soluzione dei rapporti di forza tra le cosche. Anzi, è tradizione immutata nella mafia che l'affermazione personale avvenga sempre attraverso la violenza direttamente esercitata. L'idea che a volte si ha dei capi mafiosi come "menti" raffinate, che vivono ad un altro livello rispetto agli esecutori dei loro voleri è del tutto sbagliata (Falcone, Arlacchi). Anzi, caratteristica peculiare della mafia, rispetto ad altre forme di criminalità di alto livello, è proprio questa identità tra mandanti ed esecutori, così che si diventa capimafia solo passando attraverso i crimini più efferati, e spesso sono gli stessi capi che partecipano direttamente alle azioni più importanti. Alla guerra di mafia si associò anche una serie di "delitti eccellenti" che non aveva pari con la precedente storia di Cosa Nostra. Cosa era successo? Fino alla fine degli anni Settanta lo Stato aveva convissuto con la mafia in maniera piuttosto pacifica. Vi erano dirette connessioni tra potere politico e mafia, come abbiamo visto, ma vi era anche una certa tolleranza da parte della magistratura, delle forze di polizia, e persino della classe imprenditoriale nei confronti di un'associazione che garantiva una certa pace sociale, il controllo delle altre forme di criminalità, ed alla quale venivano lasciati in cambio ampi spazi d'azione. Per svariate ragioni difficili da riassumere in poche righe, la società siciliana, sul finire degli anni Settanta, cominciò a ribellarsi a questo stato di fatto, e nella magistratura, nella società civile, e persino nella politica cominciarono a esserci voci contrarie alla mafia. La prima reazione delle cosche fu quella di eliminare chiunque si opponesse seriamente al loro strapotere, approfittando anche del fatto che spesso queste persone erano isolate e poco protette negli stessi ambienti in cui vivevano. Iniziò così la stagione dei delitti eccellenti. Si cominciò nel 1979 con il giudice Cesare Terranova, appena tornato alla magistratura attiva dopo essere stato deputato per il PCI e membro della Commissione antimafia. Seguirono, tra i magistrati, gli omicidi di Gaetano Costa (1980), appena nominato procuratore a Palermo, e Rocco Chinnici (1983), capo dell'Ufficio istruzione di Palermo e diretto superiore di Falcone, al quale per primo aveva dato lo spazio necessario per le indagini antimafia. Tra i politici, nel 1980, di particolare significato fu l'omicidio di Piersanti Mattarella, democristiano, da poco nominato presidente della Regione Sicilia confidando nel fatto che il padre, Bernardo, aveva avuto nel passato "pacifici" rapporti con la mafia. Il cambiamento culturale che stava avvenendo in Sicilia passava però anche all'interno delle famiglie, ed il giovane Piersanti si diede subito da fare per isolare i comitati d'affari politico mafiosi nella Regione, pagando con la vita questa scelta. Ancora tra i politici, fu ucciso Pio La Torre (1982), segretario regionale del PCI, da sempre attivo nella lotta antimafia. Anche le forze dell'ordine pagarono caramente il nuovo clima di opposizione alla mafia. Furono uccisi il vicequestore di Palermo Boris Giuliano, gli ufficiali dei carabinieri Giuseppe Russo e Emanuele Basile, e i dirigenti di polizia Beppe Montana e Ninni Cassarà. Nel settembre 1982 fu ucciso il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa con la sua giovane moglie, da 100 giorni nominato prefetto di Palermo, ed ancora in attesa di quei poteri speciali che aveva richiesto per combattere più efficacemente la mafia, e che il governo aspettò troppo a lungo a concedergli.
Avvenimenti Italiani
Il Cervello omicida non è sempre la mafia
Nella corale lotta al fenomeno mafioso è mancata - non si sa se volutamente o per incapacità - una approfondita analisi sui delitti perpetrati dalla mafia le cui vittime sono state qualificate "cadaveri eccellenti". Dal 1972 ad oggi, da quando cioè la Commissione Antimafia ha concluso i suoi lavori in clima di manifesta omertà, nella città di Palermo, sede del potere politico, sono stati assassinati due Procuratori della Repubblica, il magistrato capo dell'Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, un colonnello dei carabinieri, un Presidente della Regione, il Prefetto di Palermo e la sua consorte, il segretario provinciale della Democrazia Cristiana, due giornalisti, il presidente di uno dei maggiori ospedali dl Palermo, il sindaco di uno dei centri della provincia, il segretario della sezione di uno dei partiti laici, il direttore di un'agenzia di banca, tutti delitti atipici, e tutti rimasti impuniti. Da questo terrificante elenco sono stati esclusi il vicequestore di Palermo Boris Giuliano, il capitano dei carabinieri Emanuele Basile, il maresciallo Ievolella, il brigadiere Aparo ed i numerosi agenti di polizia e carabinieri caduti nella lotta alla criminalità perché non rientrano nella categoria "cadaveri eccellenti", anche se i delitti sono stati atipici, e anch'essi rimasti impuniti. Ovviamente non sono state incluse numerose altre "vittime eccellenti" perché in evidente odore di mafia.Tutte le indagini per tutti i delitti si sono adagiate sulla facile pista del traffico degli stupefacenti e del riciclaggio del denaro sporco investito negli appalti delle opere pubbliche, e si è corso dietro raccoglitori di olive, supertestimoni ed altri santipaoli fabbricati dalla mafia, e non si è tenuto conto - o si è voluto ignorare - che nella storia della mafia i pochi "cadaveri eccellenti" hanno avuto "mandanti eccellenti": e per i pochi casi registrati si ricorda l'omicidio di Emanuele Notarbartolo, barone di S. Elia, direttore generale del Banco di Sicilia, perpetrato nel 1893, per il cui assassinio è stato additato quale mandante l'onorevole Raffaele Palizzolo, deputato del collegio della "Briaria", quartiere di Palermo tristemente famoso per essere il covo della feroce mafia protetta dai politici del partito allora al potere. Non si è tenuto conto che sia a Palermo che altrove, la mafia non aveva mai ammazzato o fatto ammazzare uomini politici e alti funzionari dello Stato; non aveva mai "punito" o "fatto punire" un giornalista "nordico" o siciliano che da Palermo ha dettato i suoi articoli a giornali di Roma o di Milano; non ha mai attentato alle attrezzature ed agli impianti delle troupes cinematografiche, anche se il soggetto è stato dichiaratamente contro la mafia; non ha mai infastidito nessun operatore televisivo, salvo ad intervenire in sede di potere per impedire la trasmissione; non ha mai aggredito, ricattato o sequestrato un turista il cui nome è stato seguito da nomi con una lunga serie di zeri ragguagliabili in dollari e sterline. Nel corso delle indagini per i "cadaveri eccellenti" sono state scoperte "piste convergenti" legate agli stessi motivi ed alle stesse cause per le quali sono avvenute faide fra cosche; sono stati "fatti passi avanti" per avere accertato che la stessa arma è servita per più omicidi perpetrati in tempi e luoghi diversi, e non si è tenuto conto delle diverse origini e cause, della diversa qualità delle vittime e, soprattutto, del fatto che "quell'arma" può anche essere "attrezzo di lavoro" di proprietà di una "anonima delitti" che noleggia la manovalanza armata per la esecuzione di lavori su commissione da eseguire a Palermo o a Catania, in Toscana o nella Germania Occidentale, ove sono avvenuti fatti delittuosi atipici. L'avere accomunato in un unico fascio tutti i delitti e tutte le vittime, attribuendole alla cosiddetta "mafia emergente", cioè alle cosche del traffico degli stupefacenti che sono riuscite ad eliminare le "consorelle concorrenti", è stato un grosso errore che ha favorito la "grande famiglia" della mafia palermitana della quale fanno parte uomini politici e alti burocrati, gli stessi che sono riusciti ad uscire indenni ed indisturbati dalle indagini e dalla inchiesta della Commissione Antimafia. Ritenere, ad esempio, che Pio La Torre, segretario regionale del Partito Comunista, deputato al Parlamento, ex membro dell'Antimafia, e Cesare Terranova, ex deputato eletto nelle liste del P.C.I., ex membro della Commissione Antimafia e, come tale, come La Torre, depositario dei segreti della "santabarbara" della Commissione parlamentare d'inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia, siano stati fatti assassinare da Luciano Liggio o dalla "mafia emergente" - palermitana o catanese poco importa - è stato un errore perché ha depistato le indagini, ha disorientato l'opinione pubblica che dal Partito Comunista in Sicilia si aspetta ben altro tipo di lotta alla mafia e soprattutto una più impegnata lotta ad alcuni gruppi di potere ed alla parte corrotta e corruttrice dell'alta burocrazia dello Stato e della Regione, ha fermato le ansie e le spinte di quanti vorrebbero collaborare con le forze di polizia, come è avvenuto negli anni della prima fase dei lavori dell'antimafia, quando molti siciliani uscirono dall'atavico silenzio ed additarono alle autorità di polizia ed all'opinione pubblica alcuni boss ritenuti intoccabili. Di fronte a questi assurdi ed inspiegabili fatti che hanno il sapore dell'omertà politica si prova un vero senso di sgomento: si ha l'impressione che tutte le indagini che riguardano le "vittime eccellenti" cozzino contro il muro di solidarietà fra partiti e correnti e cadano sulla facile e generica strada della criminalità comune con l'inevitabile risultato che dopo poche settimane gli arrestati vengono rimessi in libertà per insufficienza di indizi, si rimane sgomenti perché si è testimoni della terribile verità triangolare che vede da un lato carabinieri e polizia procedere ad arresti di veri e presunti criminali, dall'altro alcuni magistrati "di grido", ritenuti depositari della verità e della lotta alla mafia, portati in giro come fossero il braccio di San Francesco Saverio, rimanere impotenti (o indifferenti) di fronte a sentenze di proscioglimento o di assoluzione, e, dall'altro, infine la mafia che "giustizia" suoi accoliti e servitori dello Stato (terribile a dirsi: sono stati assassinati fino ad oggi 76 dei 114 mafiosi processati ed assolti a Catanzaro mentre altri 13 sono scomparsi). Purtroppo, i morti ammazzati dalla mafia non parlano e i vivi, quelli che sanno, tacciono, o perché hanno paura, o per sfiducia nelle istituzioni dello Stato, o per solidarietà politica di corrente o di partito, o addirittura, per la partecipazione al potere. Illudersi di avere mafiosi pentiti è un'utopia perché l'esperienza ha dimostrato che i rari casi del genere sono finiti nei manicomi. Se i molti ammazzati dalla mafia potessero parlare molti boss della politica, alcuni deputati e forse anche qualche uomo di governo potrebbero finire in galera o quantomeno sul banco degli imputati. Se il Parlamento decidesse di rendere di pubblico dominio "le schede" degli uomini di partito ed anche dei parlamentari i cui nomi ed i cui riferimenti sono stati estratti dai fascicoli personali di esponenti mafiosi e dal materiale probatorio raccolto dalla Commissione Antimafia, crollerebbero alcune maggioranze nei partiti, scomparirebbero dalla scena politica alcuni notabili, verrebbero emarginati alcuni capi corrente ed alcuni feudi elettorali cesserebbero di essere supporto per il potere di alcuni capi corrente nazionali. Verrebbe fuori che Piersanti Mattarella, Presidente della Regione, uno dei pochi e rari uomini siciliani di governo non "parlato", Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia Cristiana e Cesare Manzella, presidente dell'ospedale traumatologico-ortopedico di Palermo (undici miliardi di bilancio l'anno) sono stati assassinati in un intreccio di inestricabili rivalità ed egemonie per il controllo e lo sfruttamento di settori della vita pubblica, controllo e sfruttamento che è stato possibile esercitare se e in quanto sono esistite compiacenze, legami, collusioni e complicità tra boss della mafia e politici boss, tra "famiglie" di mafia, "baronie" politiche e burocratiche nello Stato e nella Regione.Verrebbe fuori anche che Terranova e La Torre sono stati assassinati proprio quando, mutati i tempi, e cambiato indirizzo, il Partito Comunista in Sicilia è ritornato sulle posizioni di intransigente lotta al sistema di potere "all'italiana" nel quale lo "spirito di mafiosità" è diventato elemento di aggregazione tra forze politiche eterogenee il cui obiettivo è la partecipazione al potere, cioè, verrebbe fuori che Terranova e La Torre sono stati assassinati proprio quando la "grande famiglia" della mafia palermitana si è resa conto che stavano per essere buttati in pasto all'opinione pubblica i nomi dei politici trascritti nelle "schede " della Commissione Antimafia, le schede dichiarate segrete col voto unanime di tutti i membri dell'Antimafia il 31 marzo 1972. E verrebbe fuori che il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa è caduto sulla strada delle "schede segrete", alcune delle quali sono state compilate con le documentate denunzie contenute nel rapporto 23/461 che lo stesso Dalla Chiesa aveva inviato alla Commissione Antimafia il 31 dicembre 1971 quando era comandante della legione dei carabinieri di Palermo. Anche il rapporto Dalla Chiesa è stato coperto da segreto dai deputati e senatori componenti l"'Antimafia", segreto da me violato quando sono riuscito a consegnarlo al Tribunale di Torino a cui la Commissione lo aveva negato. «Anche quando si è avuta la certezza di avere colpito i gangli vitali della mafia - ha scritto e ripetuto più volte Dalla Chiesa - si è dovuta constatare una vanificazione degli sforzi, vanificazione dovuta, fra l'altro, al mancato accoglimento delle più volte invocate norme che consentono interventi fiscali e paralleli a quelli della polizia», interventi che Dalla Chiesa voleva venissero estesi anche alle sedi, negli ambienti e per le fonti con le quali sono state raggiunte rapide e facili carriere politiche associate a smisurati e rapidi arricchimenti. E' ovvio che tornato in Sicilia con l'incarico di Alto Commissario per la lotta alla mafia, Dalla Chiesa ha chiesto "le norme più volte invocate", e non avendole ottenute ha minacciato le dimissioni. Ma un generale non si dimette, semmai cerca nuove strategie, nuove alleanze per continuare la lotta intrapresa nella quale crede e per la quale ha dedicato il meglio di se stesso. Dalla Chiesa è stato assassinato l'indomani che era riuscito a creare nuove strategie e nuove alleanze: è stato ucciso immediatamente dopo il suo incontro con il Ministro delle Finanze da cui aveva ottenuto la mobilitazione della Guardia di Finanza per «gli accertamenti fiscali e paralleli a quelli della polizia» a carico di molti politici boss. La raffica che ha stroncato l'Alto Commissario per la lotta alla mafia è stata, sì, una punizione per il funzionario dello Stato che aveva osato uscire dai vecchi schemi affrontando la mafia sul terreno politico-finanziario, ma è stato anche un avvertimento per i partiti che minacciano di scoprire i nomi dei politici collusi e complici con la mafia. Ho incontrato due volte il generale Dalla Chiesa: una prima volta, nel gennaio 1977, all'hotel Liguria di Torino, pochi giorni dopo che avevo consegnato il rapporto 23/461 al Tribunale di Torino, chiamato a giudicarmi per diffamazione a mezzo stampa su querela dell'allora ministro Giovanni Gioia e di altri nove suoi amici e parenti. Con molta cordialità, ma con insistenza, Dalla Chiesa chiese per quali vie ero entrato in possesso del rapporto da lui inviato al Presidente dell'Antimafia. «A me non dispiace - disse testualmente - che lei sia riuscito a fare qualificare amici dei mafiosi alcuni uomini politici di Palermo, nei cui confronti ho espresso un mio giudizio». «Mi preoccupa - e ripetè le parole come a sottolinearle - che un documento "riservato" sia finito nelle mani di un privato. Non le chiedo i nomi, mi dica almeno per quali vie ne è entrato in possesso». Debbo dire che non rimase convinto quando gli dissi di aver ricevuto il grosso plico per posta, senza il nome del mittente. Una seconda volta ho incontrato Dalla Chiesa, all'aeroporto di Fiumicino, nell'ottobre del 1981. Non so se era nell'aria un suo trasferimento a Palermo, è certo però che il suo interesse nella conversazione (durata circa mezz'ora, presente un giovane alto, robusto, castano, sui 35 anni, che più volte chiamò «capitano») fu per i legami tra mafia e politica, per le collusioni tra politici e boss della mafia, per la mafia nell'apparato dello Stato e della Regione e soprattutto per le "schede segrete"dell'Antimafia, "schede" che potrebbero distruggere le carriere di numerosi notabili siciliani, con grave pregiudizio per alcune correnti della Democrazia Cristiana. Dalla Chiesa era convinto che oltre alla "scheda Gioia" fossero in mio possesso altri documenti relativi alla mafia ed ai poteri pubblici, documenti fattimi avere da nemici ed avversari di partiti e di corrente. Si tratta delle "schede" che la Commissione Antimafia ha elaborato sulla scorta della documentazione raccolta nei 13 anni di sua attività, ricavate dalle deposizioni, dalle relazioni e dai rapporti di prefetti, procuratori generali, procuratori della Repubblica, questori, colonnelli dei carabinieri. Fra questi documenti vi è anche il rapporto del generale Dalla Chiesa. «La Commissione avvertì - si legge nella "Relazione sui lavori svolti e sullo stato del fenomeno mafioso alla fine della IV legislatura": doc XXIII n. 2 septies, pagg. 140 e 141 - come il suo compito più significativo fosse appunto quello di sciogliere il nodo dei rapporti tra mafia e pubblici poteri in quanto ritenne che fosse questa la ragione essenziale della sua istituzione ed in quanto comprese che solo un organo politico come la commissione avrebbe potuto perseguire uno scopo del genere con la necessaria efficacia, imparzialità e credibilità». «L'Antimafia si preoccupò - continua la relazione - di impostare uno specifico programma sui rapporti tra mafia e poteri pubblici, e successivamente di costituire un apposito Comitato di indagine che operasse in stretto collegamento con l'ufficio di presidenza, secondo i criteri indicati dalla Commissione plenaria. In adempimento di questo suo compito il Comitato ha provveduto anzitutto ad estrarre dal materiale probatorio raccolto dalla Commissione tutti i riferimenti ad uomini ed organizzazioni di partito; questi riferimenti - continua la relazione - sono stati estratti dai fascicoli personali di esponenti mafiosi, da segnalazioni e documenti inviati da privati o da uffici, dagli atti acquisiti dall'Antimafia nel corso della sua attività e in particolare dalle deposizioni di testimoni e dalle dichiarazioni rese alla Commissione ed a singoli comitati. Sono state quindi - conclude la relazione - redatte apposite schede nominative in ciascuna delle quali è stato riportato in sintesi il contenuto della documentazione». Queste schede sono diventate segreto di Stato. Nella confusa fase politica di una non meglio qualificata maturazione di nuovi indirizzi politici e nel clima di un inspiegabile ed assurdo compromesso, tutti i partiti hanno consentito che i loro rappresentanti nell'Antimafia coprissero con atto di manifesta omertà «i riferimenti a uomini politici ed a partiti estratti dal materiale probatorio raccolto dalla Commissione». Quante maggioranze crollerebbero all'interno dei partiti laici se le terribili schede venissero rese di pubblico dominio? Con quali partiti e con quali correnti dovrebbero trattare i partiti immuni dalla mafia - ammesso che ve ne siano - per costituire alleanze e maggioranze per partecipare e collaborare al governo? La crisi dell'Antimafia non è stata provocata dalla vischiosità del fenomeno mafioso, dalla impossibilità di dare una connotazione alla mala pianta della mafia. La vera crisi è stata nei partiti, ed è stata provocata dalla paura di concludere, dal timore di portare alle estreme conseguenze i risultati di una indagine che non a caso aveva indotto i tre presidenti a proferire trionfalistiche ma fondate dichiarazioni di soddisfazione e di fiducia per il materiale raccolto. I partiti non hanno compreso - o non hanno voluto comprendere - che il problema della mafia è un fatto politico nazionale. E' un problema dei partiti all'interno dei quali va iniziata la prima vera lotta per sradicare lo "spirito di mafiosità", inteso come solidarietà brutale e istintiva fra quanti vogliono conquistare il potere, "spirito di mafiosità" che soffoca la vita politica in Sicilia, ove il potere politico ha il carattere di tipica marca proconsolare. Pubblicare le "schede" è un atto al quale i partiti ed il Parlamento non possono sottrarsi. Continuare a mantenerle segrete significa accollarsi la responsabilità e la colpa dei "cadaveri eccellenti" che inevitabilmente seguiranno.
Un articolo di Michele Pantaleone

http://www.rifondazione-cinecitta.org/terranova.html

Almanacco del 25 settembre

Mark Rothko



1979 - A Palermo la mafia assassina il giudice Cesare Terranova e la sua guardia del corpo Lenin Mancuso.


Sono nati:

1599 - Francesco Borromini, architetto
1683 - Jean Philippe Rameau, compositore
1896 - Sandro Pertini, partigiano e VII Presidente della repubblica
1897 - William Faulkner, scrittore premio Nobel (La paga del soldato)
1901 - Robert Bresson, regista maestro del minimalismo (Il diario di un curato di campagna)
1903 - Mark Rothko, pittore
1906 - Dimitri Shostakovich, compositore
1922 - Luciano Salce, attore e regista (La voglia matta)
1925 - Silvana Pampanini, sex-symbol anni '50(Bellezze in bicicletta)


1929 - Delia Scala, soubrette
1932 - Glenn Gould, pianista
1944 - Michael Douglas, attore figlio dell'inarrivabile Kirk (La guerra dei Roses)
1952 - Christopher Reeve, attore (lo sfortunato Superman)
1955 - Zucchero, cantante


Sono morti:

1506 - Filippo il Bello, (marito di Giovanna la pazza)
1849 - Johann Strauss padre, compositore (Marcia di Radetzky)
1954 - Vitaliano Brancati, scrittore neorealista (Il vecchio con gli stivali)
1968 - Cornell Woolrich, scrittore (La sposa era in nero)
1970 - Erich Maria Remarque, scrittore (Niente di nuovo sul fronte occidentale)
1980 - Lewis Milestone, regista (All'ovest niente di nuovo)
1987 - Mary Astor, attrice (Il mistero del falco)
1993 - Bruno Pontecorvo, fisico che scelse la Russia
1999 - Marion Zimmer Bradley, scrittrice (ciclo di Avalon)
2003 - Franco Modigliani, economista-Nobel 1985
Festeggiano: Alberto-Aurelia-Domenico-Nicola e Sergio

OMS- giornata nazionale del cuore


Nota personale: Auguri a Giuliana, la mia dottoressa e a Keely, donna, madre e moglie eccezionale.

domenica 24 settembre 2006

Never forget: SALVADOR ALLENDE

Runge


Salvador Allende Gossens (26 luglio, 1908 - 11 settembre, 1973) fu Presidente del Cile dal 3 novembre 1970 fino alla destituzione violenta e uccisione a seguito di un colpo di stato militare, avvenuta l'11 settembre 1973.

Allende nacque a Valparaíso ed esercitò la professione di medico.

Fu massone, ma anche appassionato marxista ed acuto critico del sistema capitalista. Probabilmente già durante gli studi universitari si avvicinò al nascente Partito Socialista Cileno, del quale sarebbe molto presto divenuto cofondatore e principale leader. Allende fu dapprima ministro in governi di coalizione e successivamente presidente del Senato cileno.

Eletto presidente, Allende dichiarò la sua intenzione di promuovere riforme socialiste, la cosiddetta "via cilena al socialismo", che prevedeva radicali misure - riforma agraria, aumento dei salari, nazionalizzazione del rame..- sempre restando nell'ambito della legalità democratica. I suoi avversari politici lo accusarono di voler convertire il Cile in un regime comunista, ma Allende rigettò queste insinuazioni.

Queste accuse, però, trovavano allarmata attenzione presso gli Stati Uniti, che apertamente manifestarono di considerare pericolosa la sua crescita politica, ovviamente non solo per motivi legati all'ideologia, stanti gli enormi interessi economici americani in quell'area. Documenti recentemente declassificati del governo USA (v.)hanno confermato che precisi ed inequivocabili ordini erano stati diramati agli agenti della CIA per prevenire l'elezione di Allende alla presidenza o, ove ciò non si fosse potuto impedire, per creare condizioni favorevoli per un golpe.

Dopo aver tentato per tre volte la corsa presidenziale, il 5 settembre 1970 Allende fu eletto presidente come leader della coalizione Unidad Popular. Ottenne il primo posto al voto con 1.070.334 preferenze, ma, non avendo il 50% dei voti (36,3% a lui, 34% a Jorge Alessandri, 27,4% a Radomiro Tomic, della Democrazia Cristiana Cilena), il Congresso avrebbe dovuto decidere tra lui ed il secondo più votato.

Anche prima della sua vittoria elettorale, Allende attirò rapidamente su di sé il veto dell'establishment politico statunitense. A causa delle sue idee socialiste, si cominciò a temere che ben presto il Cile sarebbe diventato una nazione comunista e sarebbe entrato nella sfera d'influenza dell'Unione Sovietica. Per di più gli USA avevano cospicui interessi economici in Cile, con società come ITT, Anaconda, Kennecott ed altre.

L'amministrazione Nixon, in particolare, fu la più strenua oppositrice di Allende, per la quale nutriva un'ostilità che Nixon ammetteva apertamente. Durante la presidenza Nixon, i cosiddetti "consiglieri" USA (che avrebbero imperversato in buona parte dell'America Latina per tutti gli anni '70 e '80) tentarono di impedire l'elezione di Allende tramite il finanziamento dei partiti politici avversari. Si sostiene che lo stesso Allende abbia ricevuto finanziamenti da movimenti politici comunisti esteri, ma tale ipotesi rimane ufficialmente non confermata, ed in ogni caso la portata degli eventuali contributi sarebbe stata ben minore rispetto alle possibilità di "investimento" statunitensi.

Una volta che Allende fu finalmente eletto,con l'appoggio della Democrazia Cristiana, la CIA condusse operazioni nel tentativo di spingere il Presidente uscente del Cile, Eduardo Frei Montalva, a bloccare la ratifica, da parte del Congresso, della nomina di Allende a nuovo Presidente. Il piano della CIA era di persuadere il Congresso Cileno ad eleggere presidente l'avversario di Allende, il candidato del Partito Liberal Conservatore Jorge Alessandri Rodríguez. Sempre secondo il piano, Alessandri avrebbe prontamente rassegnato le dimissioni dopo essere stato eletto, per poter indire nuove elezioni. Con il ricorso a questo trucco, Eduardo Frei avrebbe così potuto ripresentarsi alle elezioni nell'apparente formale rispetto della legalità (la Costituzione cilena allora vigente vietava infatti più di due mandati presidenziali, ma solo se questi erano consecutivi), e presumibilmente avrebbe sconfitto Allende.

In ogni caso, alla fine, Frei, nonostante le fortissime pressioni statunitensi, non se la sentì di forzare la Costituzione bloccando la ratifica, così il Congresso scelse di designare Allende come presidente, a patto però che firmasse uno "Statuto di Garanzie Costituzionali" nel quale garantiva che le sue riforme socialiste non avrebbero stravolto nessun elemento della Costituzione Cilena.

Una volta eletto, Allende iniziò ad operare per realizzare la sua "piattaforma" di riforma socialista della società cilena. Fu avviato un programma di nazionalizzazione delle principali industrie private, fra cui le miniere di rame fino ad allora sotto il brutale controllo della Kennecott e della Anaconda (aziende americane), si diede mano alla riforma agraria, fu creata una sorta di tassa sulle plusvalenze. Il governo annunciò una sospensione del pagamento del debito estero e al tempo stesso non onorò i crediti dei potentati economici e dei governi esteri. Tutto ciò irritò fortemente la media e alta borghesia ed acuì la tensione politica nel paese, oltre ovviamente a creare un discreto dissenso internazionale.

Durante la sua presidenza Allende non ebbe facili rapporti col Congresso Cileno, in cui era forte l'influenza della Democrazia Cristiana Cilena, partito profondamente conservatore. I Cristiano Democratici continuavano ad affermare che Allende stava conducendo il Cile verso un regime dittatoriale, sulla falsariga del governo cubano di Castro, e cercavano di stravolgere molte delle sue maggiori riforme costituzionali. Alcuni membri del Congresso addirittura invocarono l'intervento delle forze armate, tradizionalmente neutrali, a compiere un golpe per "proteggere la costituzione" (secondo alcuni questo fu una sorta di crudo ed esplicito "ultimo avvertimento" lanciato ad Allende affinché ammorbidisse le sue posizioni o, meglio, si dimettesse da sé, senza far pericolosamente scomodare i militari).

Nel 1971, a seguito di una singolare visita ufficiale, durata addirittura un mese, del presidente Cubano Fidel Castro (col quale aveva stretto una profonda amicizia personale), Allende annunciò il ripristino delle relazioni diplomatiche con Cuba, nonostante in una dichiarazione dell'Organizzazione degli Stati Americani, cui il Cile aderiva, si fosse stabilito che nessuna nazione occidentale avrebbe concesso aperture verso quello stato.

La politica di Allende, sempre più sbilanciata a sinistra verso il socialismo (in parte in accoglimento delle pressioni di alcune delle frange più massimaliste della sua coalizione), e gli stretti rapporti con Cuba, allarmarono Washington. L'amministrazione Nixon cominciò ad esercitare una pressione economica sempre più crescente attraverso molti canali, alcuni dei quali erano legali (come l'embargo), ma molti di più illegali, attraverso il finanziamento degli oppositori politici nel Congresso Cileno e nel 1972 attraverso l'inconsueto appoggio economico erogato al sindacato dei camionisti, che paralizzò il paese

Nel Settembre del 1973, l'altissimo tasso di inflazione e la mancanza di materie prime avevano precipitato il paese nel caos. L'11 settembre di quell'anno, le forze armate Cilene guidate dal Generale Augusto Pinochet, misero in atto il golpe cileno del 1973 contro Allende. Durante l'assedio e la successiva presa del Palacio de La Moneda, Allende morì di morte violenta.

Non sono del tutto chiare le circostanze della sua morte: il suo medico personale affermò che il Presidente si suicidò con una mitraglietta donatagli da Fidel Castro, mentre altri sostengono che fu ucciso dai golpisti di Pinochet mentre difendeva il palazzo presidenziale. Pare anche che la Massoneria, per salvare il confratello, avesse inviato un aereo per condurlo fuori dal Cile.

In seguito al colpo di stato, in Italia ci furono molti scioperi in solidarietà con Allende e il popolo Cileno. Italia e Svezia non riconobbero mai il regime di Pinochet, e per tutti i 17 anni di dittatura ufficialmente rimasero in carica gli ambasciatori nominati da Salvador Allende.

Il colpo di Stato, che molti Cileni speravano proteggesse la costituzione, ora si manifestava in tutto il suo orrore. Pinochet avrebbe di fatto regnato, non democraticamente eletto, per i successivi diciassette anni. La violazione dei diritti umani da parte del suo governo è stata, così come testimoniano precise prove documentali, sistematica prassi quotidiana, ed alla fine del lungo periodo di dittatura si stimarono più di 3.000 vittime (anche non cilene), fra morti e "desaparecidos".

Documenti ora declassificati indicano altresì come la CIA, il servizio di controspionaggio degli Stati Uniti d'America sia stato "longa manus" del governo di quest'ultimo Paese, appoggiando il rovesciamento con la forza di Allende, ed ha incoraggiato ed alimentato l'uso della tortura da parte del dittatore Pinochet.

Più di trent'anni dopo la sua morte, Allende rimane un personaggio controverso. Un ampio e partecipato dibattito si è aperto in tutto il Mondo su come avrebbe potuto evolvere la storia del Cile se Allende non fosse morto. Ma in queste riflessioni Allende è un simbolo, che impersona le idee sostenute ed in via di applicazione. Ed il dibattito fu ed è di idee.

Elemento fattuale comune a tutte le impostazioni polemiche è che, in concreto, da subito si è sospettato ed abbiamo oggi per ben certo (per loro stessa ammissione documentale) che gli Stati Uniti abbiano quantomeno favorito un arresto coatto e violento di un processo politico interno di un altro paese; questo processo era sì democratico, ma volgeva - al di là dei "distinguo" di facciata - in direzione di una scelta collettivista. Il golpe militare e la successiva dittatura avevano impedito che la forma democratica conducesse una nazione verso il comunismo. Ciò ovviamente veniva interpretato alternativamente come un'insostenibile sopraffazione imperialista ovvero come un opportuno intervento per impedire progressi dell'ideologia comunista, ritenuta perniciosa.

Dalla sinistra dunque Allende è considerato un martire, caduto per la causa del socialismo. I militanti di sinistra da subito si volsero ad identificare negli Stati Uniti, e specificamente in Henry Kissinger e nella CIA, i diretti responsabili della sua morte, e lo vedono come una delle vittime dell'"Imperialismo Americano". Il suo viso è stato anche stilizzato e riprodotto come un simbolo del Marxismo, così come era accaduto per la famosa immagine di Che Guevara.

Dalla destra si guarda invece meno favorevolmente alla figura di Allende. La sua stretta amicizia con Fidel Castro ha portato molti ad accusarlo di essere un comunista, destinato a trasformare il Cile in una dittatura di stampo castrista. Affermano anche che le profonde riforme di stile socialista che aveva attuato mentre era al potere avevano messo in ginocchio l'economia del paese, così come quelle che stava per avviare avrebbero portato nefande conseguenze economiche al sistema occidentale e pericolosi vantaggi al blocco dei paesi comunisti. Inoltre, l'eventuale consolidamento di una direzione socialista per quel paese avrebbe potuto risultare destabilizzante per l'intera area.

La sempre meno oscura natura del coinvolgimento degli USA nel golpe che depose Allende, rimane un argomento scottante sulla condotta della Casa Bianca durante la guerra fredda in territorio extra-statunitense. L'abbattimento del regime democratico di Allende resta molto controverso, sebbene negli stessi anni ci fossero molti colpi di stato in America Latina.

Da wikipedia

"Estas son mis últimas palabras y tengo la certeza que por lo menos será una lección moral que castigará la felonía, la cobardía y la traición." Il Presidente Allende dalla Moneda l'11 settembre 1973 poco prima che le trasmissioni radio venissero interrotte definitivamente.

Almanacco del 24 settembre

Faberge'-Signora di Kazan


Sono nati:

1886 - Edward Bach, farmacologo (fiori di Bach)
1896 - Francis Scott Fitgerald, romanziere (Il grande Gatsby)
1934 - Maria Pia di Savoia, principessa italiana
1934 - John Brummer, scrittore di fantascienza
1936 - Jim Henson, creatore dei Muppets
1941 - Linda Mc Cartney, cantante e attivista dei diritti degli animali
1943 - Claudio Martelli, politico
1954 - Marco Tardelli, calciatore campione del mondo

Sono volati via:

768 - Pipino il Breve, figlio di Carlo Martello e padre di Carlo Magno
1541- Paracelso, alchimista
1572- Tupac Amaru, ultimo imperatore inca
1920- Peter Carl Faberge', gioielliere russo
2004- Francoise Sagan, scrittrice della Nouvelle Vague (Bonjour Tristesse)
Festa Nazionale in Sudafrica (Heritage Day)


Festeggiano: Mercedes e Gerardo


"Quando ti viene voglia di criticare qualcuno, ricordati che non tutti hanno avuto quello che hai avuto tu" F.S.Fitgerald

Never forget: Generale CARLO ALBERTO DALLA CHIESA

F.Bazille


(Saluzzo, CN, 27 settembre 1920 – Palermo 3 settembre 1982) fu un partigiano, un generale dei Carabinieri ed un prefetto italiano, che divenne noto per la lotta contro il terrorismo italiano negli anni Settanta ed in seguito fu ucciso insieme alla moglie in un agguato mafioso.

Figlio d'arte (il padre Romano partecipò alle campagne del Prefetto Mori e nel 1955 sarebbe divenuto vice comandante generale dell'Arma), divenne ufficiale di complemento di fanteria nel 1942, passò all'Arma in s.p.e. e completò gli studi di giurisprudenza; dopo l'armistizio quasi subito entrò nella Resistenza, operando in clandestinità negli Abruzzi e nelle Marche; vi svolse ruoli di un certo rilievo e nel 1944 partecipò alla presa di Roma con le truppe alleate.

Dopo la guerra fu in Campania, avendo per prima destinazione Casoria (comando di Compagnia), ove erano in corso rilevanti operazioni nella lotta al banditismo. Proprio in questa lotta si distinse e nel 1949 fu pertanto inviato su sua richiesta in Sicilia, ove entrò nella formazione delle Forze Repressione Banditismo agli ordini del Generale Luca, che oltre ad avere a che fare con fenomenologie criminali come quelle del bandito Salvatore Giuliano, si occupava anche di arginare le tensioni separatistiche attizzate dall'EVIS e da altri agitatori, nonché delle relazioni fra queste due pericolose sacche di illegalità; nell'isola comandò il Gruppo Squadriglie di Corleone e svolse ruoli importanti e di grande delicatezza, meritando peraltro una medaglia d'argento al valor militare.

Da capitano, indagò sulla scomparsa (poi rivelatasi omicidio) del sindacalista Placido Rizzotto, scoprendone il cadavere che era stato abilmente occultato e giungendo ad indagare e incriminare l'allora emergente boss della mafia Luciano Liggio. Il posto di Rizzotto sarebbe stato preso da Pio La Torre, in questa occasione conosciuto da Dalla Chiesa ed in seguito anch'egli ucciso dalla mafia.

Il nome di Dalla Chiesa sarebbe stato successivamente posto in relazione con le indagini susseguenti all'incidente nel quale perse la vita il presidente dell'ENI Enrico Mattei, il cui aereo era decollato per l'ultimo viaggio dalla Sicilia, ma non vi sono riscontri su questo preciso punto, mentre è accertato che avrebbe indagato in seguito su vicende collegate al caso Mattei.

Ebbe una parentesi di servizio sul Continente, a Firenze, Como e presso il comando della Brigata di Roma, parentesi però caratterizzata anche da un asserito contrasto con il generale Giovanni De Lorenzo, che era divenuto comandante generale dell'Arma e che l'aveva destinato, ormai tenente colonnello, al comando di istituti di istruzione in Piemonte.

Da taluni si sostenne infatti che il trasferimento potesse avere alcunché di punitivo o che comunque si trattasse di un allontanamento di comodo, mentre da altri si ribatté che il De Lorenzo (che aveva in corso la ristrutturazione integrale della Benemerita) veramente volesse che le scuole Allievi Carabinieri fossero dirette da ufficiali di vaglia e non più (come invece secondo prassi militare) da ufficiali di scarso valore o puniti. Il Dalla Chiesa, il cui stato di servizio era effettivamente già ben notevole, era considerato "non sgradito" ad un altro importantissimo esponente dell'Arma, quel generale Aloja che al De Lorenzo aveva vanamente conteso viale Romania e che tuttora si trovava in posizioni più antitetiche che collaborative con il comandante generale.

Nel 1964 passò al coordinamento del nucleo di polizia giudiziaria presso la Corte d'Appello di Milano, che poi unificò e diresse come nuovo gruppo.

Dal 1966 (curiosamente in coincidenza con l'uscita di De Lorenzo dall'Arma) al 1973 tornò in Sicilia con il grado di colonnello, al comando della legione carabinieri di Palermo. Trasse notevoli risultati dalle sue studiate tecniche di investigazione, assicurando alla Giustizia boss come Gerlando Alberti o Frank Coppola ed iniziando a seguire piste che almeno per sussurro avrebbero aperto al successivo disvelamento delle relazioni fra mafia e politica.

Nel 1968 intervenne coi suoi reparti in soccorso delle popolazioni del Belice colpite dal sisma, riportandone una medaglia di bronzo al valor civile per la personale partecipazione "in prima linea" alle operazioni.

Nel 1970 svolse indagini sulla misteriosa scomparsa del giornalista Mauro De Mauro, il quale poco prima aveva contattato il regista Francesco Rosi promettendogli materiale che lasciava intendere scottante sul caso Mattei. Le indagini furono svolte con ampia collaborazione fra i Carabinieri e la Polizia, per la quale erano dirette da Boris Giuliano, anch'egli in seguito ucciso dalla mafia. Giuliano, peraltro, aveva iniziato ad investigare su molti aspetti operativi ed organizzativi della criminalità organizzata, in una fase in cui venivano alla ribalta personaggi come Michele Sindona e divenivano evidenti (o meno nascondibili) i "nessi" con il mondo politico. Le indagini sul De Mauro, però, non sortirono effetti di rilievo.

Nel 1973 fu promosso al grado di generale di brigata, nel 1974 divenne comandante della regione militare di nord-ovest, con giurisdizione su Piemonte, Valle d'Aosta e Liguria.

Creò una struttura antiterrorismo (con base a Torino), che nel settembre del 1974 gli consentì di catturare (a Pinerolo) Renato Curcio e Alberto Franceschini, esponenti di spicco delle Brigate Rosse, grazie anche all'infiltrazione di Silvano Girotto, detto "frate mitra".

Nel 1977 fu nominato Coordinatore del Servizio di Sicurezza degli Istituti di Prevenzione e Pena; passato generale di divisione, ottenne in seguito (9 agosto 1978) poteri speciali per diretta determinazione governativa e fu nominato Coordinatore delle Forze di Polizia e degli Agenti Informativi per la lotta contro il terrorismo, sorta di reparto operativo speciale ale dirette dipendenze del ministro dell'interno (Virginio Rognoni, che sarebbe restato tale sino a dopo la morte di Dalla Chiesa), creato con particolare riferimento alla lotta alle Brigate rosse ed alla ricerca degli assassini di Aldo Moro.

La concessione di poteri speciali a Dalla Chiesa fu veduta da taluni come pericolosa o impropria (le sinistre estreme la catalogarono come "atto di repressione"), anche per i retaggi sulla opinione pubblica del non tanto remoto periodo buio degli anni Sessanta; ne nacquero polemiche di una certa intensità, via via attenuate e poi smorzate dal ripetersi di brillanti operazioni.

Mise in pratica diverse forme di intervento, in particolare sollecitando ed ottenendo dal governo la formalizzazione di un rapporto privilegiato con la delazione interna, creandosi anche giuridicamente la figura del pentito, che in qualche modo era sempre di fatto stata coltivata nella Penisola a partire dai passaggi di ordinamenti spagnoleschi. Facendo leva sul pentitismo, ma molto sfruttando anche le infiltrazioni (ed agendo quindi con modalità di intelligence) si scoprì molto dell'organizzazione terroristica, si seppe abbastanza per opporvi un efficace contrasto.

Ebbe successo, il generale, nell'individuare ed arrestare gli indiziati esecutori materiali degli omicidi di Moro e della sua scorta, nell'acquisire alla disponibilità delle patrie galere centinaia e centinaia di fiancheggiatori o presunti tali, rassicurando l'opinione pubblica sulla giustezza delle scelte effettuate e riconsegnando al contempo all'Arma una generalizzata fiducia popolare. Ma in epoche successive si sono ricostruiti dettagli che conferiscono a questa parte della sua carrierà spessori e colorazioni di estrema specialità e di qualche indeterminatezza

Erano passati pochi mesi dall'uccisione dello statista, e mentre alcuni indiziati (con pubblico scandalo, ma secondo la legge) venivano rimessi in libertà per decorrenza dei termini della custodia cautelare, spesso dandosi poi alla latitanza, come Nadia Mantovani, nelle indagini i Carabinieri parevano aver unito buone deduzioni a qualche inatteso colpo di fortuna; come fu poi meglio reso noto in seguito, il casuale ritrovamento di un borsello hce si scoprì appartenente al brigatista Lauro Azzolini, identificazione raggiunta attraverso la collaborazione fra più reparti dell'Arma, condusse i militi all'individuazione di un possibile covo, definito "interessante" e situato a Milano, alla via Monte Nevoso. In questo covo che non si riusciva ad individuare per un banale errore sul numero civico, e che fu trovato solo il 1 ottobre, nel 1990, nel corso di una banale ricognizione nell'appartamento sarebbero stati incidentalmente scoperti documenti di estrema importanza sul caso Moro.

Ma tornando al '78, entrato nella carica in questo clima, a pochi giorni dall'insediamento il generale incontrò il giornalista Mino Pecorelli, direttore di "OP", che poco tempo prima aveva pubblicato notizie circa presunte fotocopie della trascrizione dell'interrogatorio cui le BR sottomisero Moro ed aveva commentato, suggerendo una possibile influenza di questi atti su alcune scelte politiche: "Le dichiarazioni postume di Moro potrebbero avere un tal peso politico e, al limite, essere talmente gravi nei confronti di alcuni tra i probabili candidati alla Presidenza della Repubblica, da consigliare le segreterie dei partiti a puntare su un candidato laico" (fu eletto il socialista Sandro Pertini). L'incontro, il cui contenuto è ignoto, sarebbe stato procurato, secondo appunti del Pecorelli, dal politico democristiano Carenini, che successivamente dichiarò di non ricordare ma di non poter escludere la circostanza. Un paio di gioni dopo l'incontro, il capo del governo Giulio Andreotti formalizzò la nomina al comando del nucleo antiterrorismo, per una durata prevista dal successivo 10 settembre al 9 settembre 1979.

Nel dicembre del 1978 il giornalista fiorentino Marcello Coppetti si incontrò con Licio Gelli e con un generale del SIOS dell'aeronautica militare, i quali - dichiarò - gli avrebbero confidato, o piuttosto insinuato, che Dalla Chiesa avrebbe in realtà barattato con Andreotti quella nomina: sempre secondo questa voce, come detto de relato, Dalla Chiesa avrebbe appreso tramite un carabiniere infiltrato che le BR sarebbero state in possesso sia di Moro che di materiale definito "compromettente" (per non si sa chi). Il Coppetti riferì inoltre la "rivelazione" appresa per la quale Dalla Chiesa avrebbe condizionato il recupero di quel materiale alla nomina al nucleo antiterrorismo.

Anch'egli piduista, Pecorelli sembrava comunque, anzi come al solito, assai ben informato. A vedere col senno di poi si rivelò inquietante rileggere che nel settembre (sempre di questo drammatico 1978), aveva pubblicato su OP commenti che da molti osservatori sono stati - a posteriori - reputati riferiti a Dalla Chiesa: trattò infatti di un generale dei Carabinieri che, in corso di sequestro, avrebbe informato del luogo di detenzione di Moro il ministro dell'interno (Francesco Cossiga), ma che questi (sempre secondo Pecorelli) non avrebbe potuto decidere da solo e fosse quindi in attesa, diciamo per via gerarchica, di "istruzioni" da parte di ciò che il giornalista denominò cripticamente "loggia di Cristo in Paradiso". Anche il generale era indicato solo con l'appellativo di "Amen", ma di questi Pecorelli scrisse con sicurezza che sarebbe stato ucciso, ed alluse ad un collegamento con le lettere di Moro dalla prigione brigatista. Dalla Chiesa era stato effettivamente chiamato al Viminale (il 22 marzo, il 10 aprile ed in altre occasioni) durante le riunioni che Cossiga organizzava fra esperti delle forze di intelligence e di polizia.

Il comando del nucleo antiterrorismo di fatto fu investito a più riprese di polemiche e critiche provenienti da ambienti politici esterni all'arco costituzionale, della sinistra estrema e anche, ma più sporadicamente, della destra estrema. Verso lo scadere dell'incarico anche osservatori più moderati si aggiunsero ai critici e Guido Neppi Modona si scagliò (con un certo séguito) dalle pagine de La Repubblica contro il generale per chiedere che non si prorogasse quel comando, a suo dire di indefinibile "collocazione istituzionale" e caso mai espressivo di una politica "delle istituzioni parallele" che si sarebbe servita di "organismi al di fuori della legalità". Alla scadenza l'incarico fu rinnovato, ma stavolta senza termine.

Sempre nel 1979 Dalla Chiesa fu nominato comandante della divisione Pastrengo a Milano e lasciò l'incarico agli istituti di pena.

Nel 1981, nonostante alcune velenose insinuazioni, con accessorie roventi polemiche, avessero riguardato la scoperta del nome del fratello Romolo, anch'egli generale dell'Arma, negli elenchi della P2, e malgrado le polemiche si fossero spinte al punto da dubitare della genuinità del suo operato, a fine anno divenne comunque vice comandante generale dell'Arma, come già il padre. Le polemiche erano scoppiate violentissime perché solo qualche mese prima della pubblicazione delle liste dei piduisti, Dalla Chiesa era memorabilmente apparso in televisione insieme al comandante generale dei Carabinieri ed al suo vice per rassicurare l'opinione pubblica sulla saldezza e sulla "pulizia" delle istituzioni democratiche. Per soprammercato, proprio nel giorno in cui veniva eseguita la famosa perquisizione di Villa Wanda, fu fatto notare, gli uomini del generale stavano eseguendo una gigantesca operazione in cui sarebbero state arrestate circa 300 persone e fermate e/o indagate altre 2500 e si insinuò addirittura che potesse aver sortito effetti di disturbo sull'altra operazione della Guardia di Finanza. Illazioni ed insinuazioni di vasta portata, ma mai sviluppatesi oltre il rango di illazioni ed insinuazioni, in assenza di prove.

Ma nello stesso anno vi fu ancora un altro episodio poco chiaro, che riguardò un consigliere regionale missino del Lazio, Edoardo Formisano (ex segretario personale di Arturo Michelini), che dichiarò alla magistratura di essere stato contattato dal questore di Roma Angelo Mangano, dal poi senatore Claudio Vitalone e da un ufficiale dell'Arma al fine di raccogliere informazioni sul sequestro Moro presso la malavita. Presto attivatosi - così dichiarò - riuscì a stabilire un contatto con Tommaso Buscetta, allora nel carcere di Cuneo, col quale in pratica si sarebbe convenuto di far trasferire un detenuto "fidato" ad altro penitenziario per poter avvicinare soggetti ritenuti utili alle indagini. Il trasferimento - come confermato anche dall'ufficiale, il tenente colonnello Giuseppe Vitali, e dal questore Mangano - sarebbe stato bloccato da Dalla Chiesa che avrebbe escluso categoricamente la possibilità di dar corso all'operazione. Va detto che il Formisano fu in seguito condannato per la messinscena del finto attentato a Bettino Craxi del 1978.

Insomma, coinvolto in turbinose vicende, Dalla Chiesa si assise sulla seconda sedia dell'Arma e fra le polemiche proseguì il suo lavoro, crescendo la parte pubblica delle sua attività, ma anche consolidandosi la sua immagine di ufficiale efficace ed integerrimo.

Interrogato nel febbraio 1982 dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul sequestro e l'omicidio di Aldo Moro, precisamente dal commissario Leonardo Sciascia, dichiarò le sue convinzioni sulle "prime copie" (allora si scriveva a macchina) delle trascrizioni degli interrogatori di Moro prigioniero: dato che dovevano pur esistere, visto che erano state trovate le seconde copie, escluse che potessero trovarsi in qualche covo, ma suggerì che potessero essere in mano di qualcuno che avrebbe "recepito tutto". Particolare che mise in evidenza, nonostante la intuibilissima importanza di simili documenti, malgrado la relativa esiguità dl numero dei componenti le formazioni terroristiche, nessuno dei tanti brigatisti e fiancheggiatori interrogati ne sapeva alcunché od ebbe mai a cennarne, neanche incidentalmente. E le borse di Moro non erano mai state trovate. In pratica, pareva dire fra le righe, qualcuno le ha prese, i BR non le avevano più; il fatto che parte di questi documenti siano invece poi stati trovati nel covo di via Monte Nevoso (o almeno, lì furono "reperiti" documenti che furono messi in relazione con quelli indicati dal generale e qualche osservatore ha insinuato che ciò non fosse casuale e che i documenti non fossero quelli ritrovati), incrementa la complicazione sull'analisi di queste dichiarazioni, contemporaneamente compatibili con l'ipotesi che Dalla Chiesa stesse mandando messaggi in codice, con l'ipotesi che il generale sapesse bene ove fossero i documenti cercati, compatibili perfino con le insinuazioni che Gelli aveva affidato al Coppetti o per converso compatibili con l'ipotesi di una totale lealtà dell'ufficiale.

Il 2 aprile scrisse al presidente del Consiglio Giovanni Spadolini che la corrente democristiana siciliana facente capo ad Andreotti sarebbe stata la "famiglia politica" più inquinata da contaminazioni mafiose.

Il successivo 2 maggio fu improvvisamente inviato in Sicilia come prefetto di Palermo a combattere l'emergenza mafia. Le indagini sui terroristi furono assegnate ad altri, e di fatto si interruppe la precedente successione di risultati prima di riuscire a fare piena luce su fatti e mandanti.

A Palermo lamentò più volte la carenza di sostegno da parte dello stato (emblematica la sua amara frase: "Mi mandano in una realtà come Palermo, con gli stessi poteri del prefetto di Forlì", città presa come esempio di situazione di lavoro ordinario, non particolarmente difficile), finché fu assassinato dalla mafia.

Il delitto fece particolare sensazione per le modalità "militari" con cui fu eseguito.

Secondo la definitiva ricostruzione giudiziaria, la A112 guidata dalla moglie, e sulla quale viaggiava il prefetto, lungo la via Carini di Palermo fu affiancata da una BMW con a bordo Antonino Madonia e Calogero Ganci (poi pentito), i quali fecero fuoco (parrebbe in realtà il Madonia) attraverso il parabrezza, con un fucile automatico AK-47.

Nello stesso tempo l'auto con a bordo l'autista e agente di scorta del prefetto, Domenico Russo, veniva affiancata da una motocicletta guidata da Pino Greco detto "Scarpuzzedda", che lo freddò. L'A112 sbandò ed il Greco soggiunse a verificare l'esito della sparatoria.

Oltre a questi, vi erano sul posto altri criminali "di riserva" che seguivano con un'altra auto e che sarebbero intervenuti nel caso di una reazione efficace del Russo, che però non ebbe modo di svilupparne

Non è stato accertato se perché sottratte in via Carini oppure se perché trafugate dagli uffici della prefettura, sparirono comunque le carte relative al sequestro Moro, che Dalla Chiesa aveva portato con sé a Palermo.

Dalla Chiesa, non appena insediatosi alla prefettura ed avuta contezza della gravità della situazione della legalità in Sicilia, aveva richiesto al governo italiano, in particolare all'allora ministro democristiano dell'interno Virginio Rognoni, poteri speciali (aggiuntivi) in deroga alla normativa vigente onde poter assumere un controllo o almeno una posizione di coordinamento delle attività investigative dirette alla lotta alla mafia.

Questa richiesta era stata resa pubblica dallo stesso prefetto per mezzo di una intervista ad un importante testata nazionale.

Rognoni avrebbe in seguito dichiarato di aver fissato proprio per il 3 settembre, giorno in cui Dalla Chiesa sarebbe stato ucciso, una riunione dei prefetti per conferirgli questi poteri, ma la riunione all'ultimo momento era stata rimandata al giorno 7.

In seguito tali poteri sarebbero stati conferiti alla nuova carica di Alto Commissario per la lotta alla mafia.

Dalla Chiesa fu insignito di medaglia d'oro al valor civile alla memoria.

Oltre che fratello del detto generale Romolo, Dalla Chiesa fu il padre di Rita, conduttrice televisiva, e di Nando, docente universitario, scrittore e uomo politico, più volte eletto parlamentare.

Da vedere: Cento giorni a Palermo 1984-di G.Ferrara

da Wikipedia.